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Paola Gambale: io donna del Sud, faccio progetti innovativi e combatto i mulini a vento

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Irpina di origine, vive a Genova, come suo padre, trasferitosi lì fin da piccolo. Si definisce donna del Sud, anche per il carattere solare e senso dell’accoglienza. È perito e CTU del Tribunale, membro del Consiglio di disciplina dell’Ordine degli Architetti di Genova, Certificatore energetico e docente di Interior Design.

Che vuol dire per te fare l’architetto?

In 20 anni di professione, le volte in cui sono riuscita a “fare l’architetto”, le conto sulle dita di una mano. L’architetto dovrebbe essere: sarto, sociologo, psicologo, artigiano, storico, direttore d’orchestra, ma soprattutto uno studioso dello spazio, ovvero di un ambiente che sia scudo protettivo dal mondo, ci avvolga, rispecchiandoci ma, nel contempo, ci dia emozione, conforto, romanticismo. La nostra professione, così come il nostro ruolo (negli interni), non è mai stato inteso nel modo corretto: spesso il cliente si aspetta da noi quello che potrebbe fare un arredatore, pensa che la “bella casa”, sia il contenitore di oggetti e arredi firmati dal costo esorbitante, o che sia rivestita dalle piastrelle più costose e da sanitari al prezzo di pietre preziose. Il compito di un architetto è invece, quello di modellare lo spazio anche con budget limitati: è lo spazio che deve essere tagliato come una pietra preziosa. Per farlo, si deve intervistare il cliente, capirne le abitudini, come “si muove” negli ambienti, gli orari della sua giornata, se ama leggere, cucinare, invitare gli amici, se ricerca, in una famiglia numerosa, di ritagliare il suo spazio almeno una volta al giorno, per suonare la chitarra o scrivere un diario. Un bravo architetto deve saper “prendere le misure”, come faceva mia nonna maglierista, e poi “cucire” addosso al cliente, la casa che l’accompagnerà nell’avventura della vita. Mi sono spesso trovata di fronte a clienti che preferivano spendere migliaia di euro in sanitari e rubinetterie, non comprendendo l’importanza che avrebbe avuto, con lo stesso budget, cambiare la pavimentazione per renderla omogenea, eliminando oltre a un corridoio lunghissimo e inquietante, la confluenza di ben 4 pavimentazioni diverse, con tanto di rattoppo trasversale per far passare gli impianti! In un’occasione, avevo anche predisposto un progetto, inserendo a lato della cucina, un ripostiglio per le conserve e gli acquisti, dotandolo di caldaia e lavatrice, in linea con gli impianti della cucina e facilmente realizzabili da un qualsiasi idraulico. Un giorno, recatami in cantiere per confrontarmi con la cliente sull’idea, trovo un idraulico, portato lì dai suoi genitori, per suggerire dove mettere la caldaia: voleva fare una nicchia sul muro perimetrale della cucina, un muro in pietra, portante per l’edificio, un lavoro staticamente pericoloso e costoso. Quando si dice la genialità, soprattutto dei clienti: mi davano un incarico, mi pagavano e poi chiamavano un altro per qualche consiglio in più e per giunta, sbagliato! Mi sono sempre chiesta il perché di quell’accadimento: non si fidavano di me come professionista, come impiantista? A distanza di anni, me lo chiedo ancora: forse nel mio curriculum non erano sufficienti due esami universitari di Fisica tecnica e Impianti, nonché l’iscrizione all’Albo dei certificatori energetici della Liguria? O forse avrei dovuto chiamarmi Paolo, invece di Paola?

Come donna dunque, quali difficoltà incontri nella tua attività?

All’inizio della professione ho compreso che la strada sarebbe stata in salita: nel primo cantiere, l’impresa mi chiamava “signorina”. Alla mia risposta: “sono sposata e ho due figli”, il passaggio fu: “Ah mi scusi dottoressa!”. E io: “Guardi, non ho neanche studiato Medicina, per gentilezza, avrebbe così difficoltà, a chiamarmi architetto?…”. Lì compresi che la distanza fra il mio mondo, fatto sì di pensiero, ma tradotto in precisione geometrica sulla carta, e quello di un artigiano, fosse troppa. Decisi allora di fare un esperimento: per avere il rispetto di un uomo in un cantiere, dovevo almeno impararne un pò il “linguaggio”. Pensai: se so impastare una torta con una frusta elettrica, imparerò anche a impastare il cemento, se so guarnirla con la spatola pasticcera, imparerò anche a stuccare e rasare una parete, se so fare il punto croce, potrei persino essere in grado di incollare le piastrelle. Se gestisco 4 fornelli alla volta, un marito, due figli piccoli e maschi, una casa, se da ragazza agli scout ho cucinato sul fuoco a legna, ho imparato a fare incastri e legature a mano con sega, scalpello e corda, quasi quasi, mi spingo fino alla saldatura! Mi ci sono voluti anni, artigiani pazienti che apprezzassero il mio spirito avventuriero e curioso di un mondo tutto al maschile e che avessero voglia e pazienza di insegnarmi, ma con tenacia ho imparato il più possibile. Non ho appreso solo la tecnica, ma il senso della fatica, l’effetto che polvere e attrezzi da lavoro lasciano su mani e viso, unite al freddo gelato in inverno, senza riscaldamento e senza finestre, perché la consegna degli infissi è in ritardo.

Perché architetto di strada?

Mentre lavoravo in un appartamento di pregio del centro storico genovese, un commerciante vicino di casa di un cliente, mi ha visto più volte passare con scarpe anti-infortunistica, la pittura fra i capelli, cacciaviti e chiavi inglesi nelle tasche. Scoperto dal chiacchiericcio di quartiere, che ero un architetto, è venuto, incredulo, a visitare la location in cui stavo realizzando il mio primo soppalco “leggero” (il sHopplà, concepito a misura di donna, per far sì che due sole donne siano in grado di montarlo in 50 minuti), svincolato dalle pareti e semplicemente appoggiato a terra. Gli ho raccontato il mio amore per il materiale, la curiosità che mi restituisce nel vederlo rispondere alle esigenze progettuali, gli ho rivelato il mio interesse per la sperimentazione, per l’azzardo, nonché l’intuito di esercitare il “ripiego”, qualora qualcosa non funzionasse. Insomma, il mio amore per vedere nascere l’opera passo dopo passo, sentendola in tutto e per tutto una mia creatura “incollata e allineata”, ai miei muscoli e alla mia pelle. Fu lui a definirmi un “architetto di strada”: lì per lì sorrisi, forse anche un po’ seccata, ma poi pensai alla storia: io non sono altro che un architetto medievale. In quell’epoca, la teoria e la pratica si sovrapponevano perfettamente, l’unica differenza è che sono donna, ma a me sembra un dettaglio da nulla!

Come e perché nasce Generazione abile?

A capodanno del 2015, in una notte insonne, dopo una festa con amici, cominciai a riflettere su quanto sarebbe stato bello il centro storico genovese, “allestito” con opere di design urbano: luci, panchine, tavoli per le soste “libere” nella pausa pranzo, con scacchiere disegnate sul piano di appoggio, affinché lo spazio urbano, potesse ospitare qualche anziano giocatore nella stagione più calda. Per sviluppare il progetto, sarebbe servita la regia dell’amministrazione pubblica con “un piano di manutenzione, arredo e design urbano”. Pensavo: mi frenerà la burocrazia, la mancanza di fondi, e infine, interlocutori sordi, mi arresteranno definitivamente questo “fiabesco laboratorio di design a scopo sociale”. Sarebbe invece di estrema semplicità realizzarlo: in una piazzetta mancano delle panchine? Il Comune non ha budget? Conosciamo dei volontari abili nelle attività manuali? Cerchiamo sponsor che mettano a disposizione legno e acciaio, in cambio di pubblicità (credo che per donazioni del genere ci sia anche uno sgravio fiscale). Io disegno il necessario, con uno stile contemporaneo, li realizziamo in un laboratorio dove insegno come si fa, agli “abili” volontari, magari coadiuvata da qualche artigiano in pensione, e alla fine, li doniamo al Comune. Nel tempo, ci sarà anche necessità di manutenzione, ma se la assegniamo agli studenti, faranno un’esperienza professionale nella quale impareranno il rispetto per il “bene collettivo”.

Da progetto architettonico, a format televisivo che ti ha comportato un premio nazionale

Alla fine di aprile del 2018, scoprii per caso sulla Rete, che due giorni dopo sarebbe scaduto un concorso nazionale per nuovi format televisivi. Assemblai la mia relazione corredandola di immagini e, con grande sorpresa, ANART (Associazione Nazionale per Autori Radio-Televisivi), SIAE e l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, mi assegnarono il primo premio. Le reti e le grandi produzioni in seguito, malgrado il progetto fosse ben esemplificato, con la realizzazione di una puntata pilota, in cui due squadre di artigiani non professionisti in competizione, realizzavano due pensiline parasole per il Porto Antico di Genova, mi negarono l’accesso al mondo televisivo, che avrebbe potuto essere il volano per espandere l’iniziativa a livello nazionale. Noto con gran disappunto, che purtroppo l’Italia non produce format, ma li acquista dall’estero. Forse sarebbe bastato solo che una rete televisiva e un produttore, mi seguisse nell’avventura del format tv: gli interventi sulle città si sarebbero sistematizzati rapidamente, l’atteggiamento corale avrebbe preso campo, dimostrando un modo nuovo di vedere “la cosa pubblica”: la politica avrebbe mostrato un volto nuovo agli occhi dello spettatore e quindi, del cittadino. Se il volano avesse preso campo, avremmo tutti un criterio nuovo di interpretare lo spazio urbano, patrimonio comune e libro di testo da cui apprendere per i giovani, che sono le fondamenta del futuro del nostro Paese.

Il lockdwon imposto dall’emergenza coronavirus, come ha cambiato la tua vita?

Completamente, sono sempre stata un vulcano di idee, mi sono sempre prodigata per gli altri, ho sempre sostenuto il volontariato, con grande energia. In questo momento, ho spento tutti i miei interruttori, la mia lotta contro i mulini a vento, si è allentata! Se propongo alle amministrazioni comunali: “vi aiuto a rendere la vostra città più bella e funzionale” e nessuno accetta un aiuto, significa che il sistema ha dei problemi così grossi, che in pratica, quasi più nulla ha senso. Ho gettato l’ancora, ora mi fermo e attendo qualcuno bisognoso di aiuto, che apprezzi il mio spirito e bussi alla mia porta.

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Convocazione Consiglio Comunale – Tra i punti in discussione l’emergenza idrica

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Ad Ariano Irpino il Presidente del Consiglio ha convocato il Civico Consesso nella Sala Consiliare “Giovanni Grasso” di Palazzo di Città, in seduta ordinaria, per il giorno 28 agosto 2025 alle ore 08,00 in prima convocazione e per il giorno 29 agosto alle ore 10,30 in seconda convocazione, con il seguente ordine del giorno:

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Antonio Bianco :”Senza soldi non si cantano messe, il Sud dimenticato anche dall’opposizione”

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Il gap tra le due aree del Paese è un dato assodato, negli ultimi due anni il PIL del Sud è stato più alto di quello del Nord, con risolti positivi, ad avviso della Meloni, sull’avviata, ma presunta perequazione economica fra le due aree del Paese. La realtà parla di ben altro: la spesa storica, la mancanza di servizi, il divario infrastrutturale sono fattori che, in sinergia tra loro, determinano l’impoverimento e lo spopolamento del Sud. Permane la differenza del reddito pro-capite, che è la metà, e la disoccupazione doppia rispetto al Nord. La situazione socio-economica non è per niente rassicurante, a sinistra Bonelli e Fratoianni, rappresentanti di AVS, indicano le priorità da affrontare quali: disoccupazione, scuola, università, sanità, alta velocità ferroviaria e rigettano l’idea di costruire il ponte sullo stretto. Pur apprezzando il loro operato, nulla dicono sulla mancata perequazione territoriale della spesa pubblica complessiva pro-capite sociale e infrastrutturale che, ogni anno, applicando  il criterio della spesa storica, sottrae al Sud 60 miliardi, indirizzati verso il Nord. Tiepida è la condanna dei due leader del regionalismo differenziato, riforma che, se attuata in tutti i suoi aspetti, porrebbe la pietra tombale sulla Questione Meridionale. In poche parole, Bonelli e Fratoianni citano i problemi in cui affonda il meridione senza indicare dove prendere i soldi, i tempi di intervento e le modalità di esecuzione di un programma pluriennale per la rinascita del Sud, ponte ideale tra l’Europa e le coste meridionali e orientali del mediterraneo. Inoltre il PIL italiano cresce come un prefisso telefonico, dopo il 2026 dobbiamo restituire il prestito con gli interessi di 122,6 miliardi del PNRR e occorre onorare gli impegni assunti dal governo Meloni in sede internazionale. A ciò si aggiunga che Adriano Giannola, presidente della Svimez, ritiene necessari almeno100 miliardi per la rinascita del Sud.

È finito il tempo dell’enunciazione dei problemi, occorre prioritariamente indicare le risorse finanziarie, certe e permanenti, indispensabili a mettere in atto un programma elettorale credibile che punti sulla rinascita del Sud.

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Aleandro Longhi (Comitato SAT) sull’emergenza acqua:”Le finanze dell’Alto Calore sono al disastro”

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Il Consiglio del Distretto Irpino dell’Ente Idrico Campano ha approvato l’aumento delle tariffe dell’acqua del 30%. Il sindaco di Ariano Irpino Enrico Franza non figura tra i sindaci contrari, né tra quelli astenuti. Possiamo pertanto dedurne che il sindaco di Ariano fosse tra gli assenti o i favorevoli, in ogni caso ha deciso che i cittadini arianesi debbono pagare i 30% in più quell’acqua che l’Alto Calore eroga a singhiozzo. Franza, così loquace quando vuole, si è “dimenticato” di informare gli Arianesi che avranno un nuovo balzello del 30% sull’acqua, che continueranno a ricevere a singhiozzo. Per correttezza bisogna dire che, sia che i sindaci abbiano votato a favore che contro, sia che abbiano partecipato al voto o che si siano astenuti, non cambia nulla: il vero problema è che le finanze dell’Alto Calore sono al disastro. Nelle città civili, i primi servizi che un sindaco dovrebbe assicurare sono: l’acqua pubblica, il sistema fognario, la depurazione delle acque, ovvero tutto quello che non è stato fatto ad Ariano. Si grida contro l’Alto Calore Servizi SpA, su cui si scaricano le responsabilità, dimenticandosi del passato e persino del presente. Gli azionisti, quindi i padroni dell’Alto Calore, sono gli enti locali, ovvero la maggior parte dei Comuni irpini e del Sannio, che oltre a detenere le azioni dell’Alto Calore, sono i proprietari dei tubi marci che dovrebbero portare acqua nelle case. I vecchi tubi sono di piombo, di ghisa, di eternit e non sono mai stati cambiati, ma soltanto rappezzati. I grandi tubi delle condotte principali sono invece di proprietà della Regione Campania attraverso l’Ente Idrico Campano: l’Alto Calore è soltanto il gestore pieno di debiti che vengono dal passato, e forse anche dal presente. Quanti sindaci avranno chiesto a quell’ente, l’assunzione clientelare di qualche parente, amico o semplice elettore? È giunta l’ora di rimboccarsi le maniche ed attuare un risanamento dell’Alto Calore e l’attuale Amministratore Unico sembra ci voglia provare. I sindaci sono i principali responsabili della mancanza d’acqua nelle case degli Irpini, nonostante l’Irpinia galleggi sull’acqua: persino un regio decreto dell’inizio del Novecento recitava che sindaci erano tenuti a dare acqua “bona” ai propri cittadini. Regione, Ente Idrico Campano, Alto Calore, Comuni e Province, non hanno neanche avuto la dignità di richiedere i fondi del PNRR (miliardi di euro) per il risanamento idrogeologico e per il rifacimento delle reti idriche. Se il Comune di Ariano, che sta spendendo 5 milioni di euro del PNRR per rifare il lastricato di 5 piazze, avesse sostituito km di tubi, sarebbe stato meglio, ma come si sa, i tubi non si “vedono”. Ovviamente anche la Regione Campania dovrà fare la sua parte. L’Amministratore Unico, avv. Antonello Lenzi, ci sta provando con uno degli strumenti a sua disposizione: l’aumento delle tariffe a carico dei cittadini, che dovrebbero pagare anche per il 60-70% di acqua che si disperde dai tubi fatiscenti. Ma c’è un altro strumento: l’aumento di capitale dell’Alto Calore SpA. Si indica un’assemblea straordinaria dei soci (i sindaci azionisti), si faccia partecipare un notaio e si deliberi un aumento di capitale con azioni riservate agli attuali azionisti, per scongiurare che qualche malintenzionato pensi di introdurre qualche grimaldello per far entrare i privati. Certo, i Comuni dovranno pagare, ma di fronte alla prolungata emergenza acqua, si deve attuare una politica di austerità: il denaro si può e si deve trovare! Non è da molto che l’indennità dei sindaci è stata aumentata e con essa, a cascata, quella dei vice sindaci, degli assessori, dei presidenti del Consiglio comunale e dei consiglieri. Per i sindaci che fanno del loro incarico un mestiere (e ciò non è edificante), si potrebbe tornare all’indennità precedente, quelli che invece continuano a svolgere il loro lavoro privato retribuito, potrebbero rinunciare alle loro indennità, così come i consiglieri comunali, al gettone di presenza. Abito ad Ariano Irpino, che dopo Avellino, è il primo azionista dell’Alto Calore e so che il sindaco percepisce un’indennità di 4.140 € mensili in quanto, non avendo un lavoro, non si è messo in aspettativa: perché non rinuncia almeno in parte alla sua indennità e così a seguire, tutti gli altri amministratori? Si facciano meno trasferte inutili a carico dei contribuenti, si disdettino i fitti passivi che i Comuni pagano ai privati, si riscuotano i fitti attivi di immobili, che spesso sono concessi in comodato d’uso gratuito per ragioni clientelari, si mettano in vendita le proprietà immobiliari dei Comuni non utilizzate a fini istituzionali, che potrebbero attivare un circuito virtuoso di investimenti, che creerebbe uno sviluppo economico. Si inizino a tagliare le spese effimere come i vari concerti che si propinano ai cittadini, credendo che si possa sostituire l’acqua con la musica. Si indicano appalti pubblici e si facciano pagare le penali alle imprese che non rispettano i contratti: quando c’è un’emergenza bisogna attuare una politica di austerità. Manca l’acqua nelle case e il Comune di Ariano Irpino ha appena concesso ben 190.000 euro a 14 associazioni: è una mancia elettorale?                                                                                                                                                                             

Di fronte alla mancanza d’acqua, non ci sono scuse: ognuno dovrà fare la propria parte senza gravare ancora una volta sui cittadini. Si sono accorti i sindaci che i loro paesi si stanno spopolando? Se si vogliono rilanciare le zone interne dell’Irpinia non si può prescindere dai servizi essenziali, a partire proprio dall’acqua. Si intende che anche la Regione dovrà fare la propria parte: la sostituzione dei grandi tubi principali che spesso si rompono e dovrà dare un finanziamento straordinario all’Alto Calore.                                                                                           

I sindacati, dal canto loro, non si possono sterilmente abbarbicare nella difesa dei dipendenti dell’Alto Calore: devono promuovere una “VERTENZA ACQUA” per sconfiggere chi vede nella privatizzazione la soluzione di ogni problema. Privato non è sinonimo di efficienza, bensì un ulteriore strumento per sfruttare i lavoratori e spremere i cittadini con alte tariffe per l’acqua.                                                                                                                                                                                    
Aleandro Longhi                                                    Coordinatore Comitato SAT (Salute, Ambiente, Territorio)

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