Attualità
Speciale Giustizia – Rodolfo Daniele: il caso Palamara non mina la terzietà di giudici e PM che in silenzio, fanno il loro dovere

Divenuto magistrato a 24 anni, ha lavorato in numerosi uffici giudiziari con funzioni diverse: giudice al Tribunale di Forlì, sostituto alla Procura della Repubblica di Salerno, Pretore mandamentale di San Cipriano Picentino, Pretore circondariale di Salerno, consigliere della Corte d’Appello di Salerno, presidente di sezione del Tribunale di Torre Annunziata, presidente del Tribunale di Ariano Irpino, presidente f.f. del Tribunale di Napoli Nord, presidente di sezione del Tribunale di Benevento e, infine, presidente di sezione della Corte d’Appello di Salerno. Con Rodolfo Daniele abbiamo affrontato gli scottanti temi della giustizia, partendo dallo scandalo Palamara, rispetto al quale proprio in queste ore, è stato chiesto un processo disciplinare per 10 magistrati.
“Volevo il cambiamento, ma mi sono lasciato inghiottire dal sistema”, ha detto Palamara, ormai ex presidente dell’ANM. Vacilla la terzietà della magistratura o è un caso sporadico?
Né l’una, né l’altra. Non so se Palamara volesse il cambiamento: so che aveva dato una sistemazione “scientifica” ad un sistema di potere preesistente alla sua nomina a presidente della ANM e alla sua elezione al CSM. Ovviamente, un sistema di potere non si può gestire da solo e in questo Palamara ha avuto molti sodali, dei quali farebbe bene a fare i nomi perché, al momento, ha pagato parzialmente solo l’ex Procuratore Generale della Cassazione Riccardo Fuzio, costretto a precipitose dimissioni, prima che il Presidente della Repubblica lo costringesse a questo passo o il Ministro della Giustizia, iniziasse nei suoi confronti un procedimento disciplinare. Questo sistema di potere, che si basava su una spartizione correntizia dei posti di vertice, era interessato, nell’immediato, al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi negli uffici giudiziari e a qualche assegnazione ministeriale di comodo. In molti uffici abbiamo assistito al conferimento di incarichi di vertice (presidente e procuratore) a magistrati, guarda caso, appartenenti a correnti diverse dell’ANM. Non si può escludere che in prospettiva, come è avvenuto per molti magistrati, Palamara e alcuni suoi sodali, aspirassero anche a una carriera politica o a qualche incarico ben retribuito in Enti o Agenzie statali o partecipate. Quindi non si è trattato di un caso sporadico. Ciò però, non significa che sia stata compromessa la terzietà della magistratura cioè di quelle migliaia di giudici e PM che quotidianamente e in silenzio, anche con rischi personali, fanno il loro dovere. Qui bisogna sapere che il capo di un ufficio giudiziario, soprattutto giudicante, ma oggi anche requirente, nella gestione dell’ufficio è vincolato ad una serie di disposizioni normative primarie (leggi) e secondarie (circolari del CSM), che non può violare e giammai un capo può condizionare una decisione giudiziaria: ogni giudice o collegio, è libero nella decisione e soggetto solo alla legge ed ogni PM è libero nelle sue scelte e conclusioni in udienza. In definitiva il conseguimento di un incarico direttivo o semidirettivo è esclusivamente l’appagamento di un’aspirazione di prestigio, che si accompagna sempre a pesanti responsabilità amministrative e contabili e spesso alla necessità di cambiare ufficio e città con conseguenti spese a carico del magistrato, senza alcun aumento della sua retribuzione né benefit di sorta. Il sistema di potere di cui ho parlato, certamente esecrabile, mirava a gestire il consenso politico-elettorale nell’ambito dell’ANM e del CSM e ad intessere relazioni che, in seguito, avrebbero potuto giovare a chi lo praticava.
Palamara “non vuol rimanere il capro espiatorio del sistema delle correnti, convinto che debbano dimettersi coloro che hanno condiviso i suoi errori, comprese le cene politiche”. Come superare la commistione tra politica e magistratura?
Come ho detto, Palamara non è stato il primo e non era il solo: non voler essere l’unico capro espiatorio è giusto e condivisibile. Cominciasse a raccontare quello che sa e molti magistrati, me compreso, se interrogati, potrebbero aiutarlo. Non deve però fare solo i nomi di chi si è rivolto a lui o ad altri come lui. Questi magistrati rientravano in due categorie: quelli che aspiravano ad incarichi per i quali non avevano titoli sufficienti e quindi volevano scavalcare altri colleghi (e questi erano complici del sistema di potere) e quelli invece che, avendo tutti i titoli in regola per un certo incarico, si rivolgevano ai rappresentanti istituzionali nel tentativo, spesso fallito, di non essere scavalcati. Costoro, tra i quali orgogliosamente mi inserisco come vittima, non erano complici del sistema di potere, ma cercavano di difendersi da esso. Palamara deve fare innanzitutto i nomi di chi condivideva la gestione di questo potere. In tempi non sospetti, dissi a molti colleghi che il CSM di cui egli faceva parte, era stato il peggiore che avevo visto in 40 anni di magistratura. Non mi ero sbagliato. Quanto alla commistione tra alcuni magistrati (non la magistratura) e la politica, il problema del suo superamento è molto delicato. È vero che l’attuale CSM (il futuro CSM non si sa) è composto da politici solo per un terzo, ma è anche vero che, in presenza di contrapposizioni correntizie, il loro voto diventa spesso determinante per il conferimento degli incarichi di cui si è detto. Pertanto gli aspiranti a tali incarichi, devono necessariamente cercare il consenso anche in ambito politico. Poi la stretta vicinanza con ambienti esclusivamente politici in ambito ministeriale o presso Agenzie statali, rende i magistrati fuori ruolo molto esposti alle lusinghe dei politici, che possono facilmente sbarazzarsi di loro, in caso di non gradimento. Bisognerebbe allora proibire il fuori ruolo? Potrebbe essere una soluzione, ma priverebbe molte compagini ministeriali dell’apporto indispensabile dei magistrati. Certo è, che dovrebbe essere vietato il rientro nell’ordine giudiziario, sia pure in altro territorio, a quei magistrati che si siano anche soltanto candidati in elezioni politiche o amministrative o abbiano accettato incarichi conferiti da pubblici amministratori. Il magistrato non deve solo essere imparziale, ma deve anche apparire tale.
Quando un magistrato favorisce qualcuno per interesse, amicizia, o politica, per cominciare tradisce il suo codice etico. Come può rivalersi il danneggiato?
In un caso come quello ipotizzato, si è in presenza di un reato (abuso di potere, favoreggiamento, corruzione in atti giudiziari, rivelazione di segreto di ufficio ecc. o addirittura concorso esterno in associazione per delinquere, anche eventualmente di stampo mafioso). In presenza di un reato, ogni danneggiato ha la tutela prevista dalla legge: denuncia il fatto, diventa parte lesa, può costituirsi parte civile nel processo penale che ne consegue o può agire in sede risarcitoria. Il processo penale potrebbe essere accompagnato dall’applicazione di misure cautelari ed amministrative (sospensione dalle funzioni e dallo stipendio fino alla destituzione) e ad esso conseguirebbe inevitabilmente il procedimento disciplinare che, in presenza di un’eventuale condanna, avrebbe un esito scontato.
Per ritrovare credibilità, il sistema Giustizia dovrebbe ricorrere a selezioni dei suoi operatori più rigide, “controllare” il loro operato o cos’altro?
Ritengo che la selezione dei magistrati sia già sufficientemente rigida. Anzi l’aumento esponenziale del numero dei concorrenti (e qui dovremmo aprire un altro discorso sulla mancanza di adeguati filtri già dall’Università) sta comportando l’assegnazione al concorso di temi su argomenti e questioni che il magistrato probabilmente, in 40 anni di lavoro, non dovrà mai affrontare. E questo non è giusto perché si rischia di premiare la fortuna di chi conosce un argomento estremamente specialistico, piuttosto che una diffusa preparazione di base. Certo è che il controllo sull’operato dei magistrati dovrebbe essere più intenso e meno formale. Esistono le valutazioni di professionalità, che però spesso sono stereotipate. In questo bisognerebbe avere più fiducia nei rapporti dei capi degli uffici (i quali, se scrivono qualcosa di negativo, rischiano di doversi addirittura giustificare). Ma se i capi degli uffici vengono talvolta nominati senza averne pieno diritto e magari a fine carriera, come si può pretendere che si facciano nemici?
Come cambia la Giustizia in tempi di Covid-19, è plausibile che, soprattutto nel settore civile, molte udienze si possano fare da remoto, principalmente per iscritto?
Premetto che, essendo ormai in pensione, non ho una diretta esperienza della ripercussione degli ultimi eventi in ambito giudiziario. Ma ho mantenuto una serie di contatti e qualcosa so. Le udienze civili e di lavoro già si fanno da remoto attraverso la trattazione scritta e i giudici, se componenti di un collegio, fanno la camera di consiglio mediante applicativi del tipo Teams, Zoom o altri. La consolle del magistrato, che esiste da anni, consente la lettura degli atti inviati dalle parti per via telematica, la redazione ed il deposito del provvedimento direttamente sulla workstation del cancelliere. In penale la comparizione degli imputati detenuti in udienza già doveva preferibilmente avvenire in videoconferenza a meno che non fosse necessaria la presenza fisica per un’eventuale ricognizione personale. Resta il grande problema dell’escussione dei testimoni che, a mio avviso, richiede la presenza fisica delle parti. Comunque, superata l’emergenza, gli uffici giudiziari stanno riaprendo agli avvocati ed al pubblico. Purtroppo ogni attività ha subìto un rallentamento che forse sarà difficile recuperare. Ma non è detto che il rallentamento ci sarà anche in futuro. Anzi ho avuto dati statistici relativi ad una maggiore produttività sia dei magistrati che del personale amministrativo in regime di smart working cioè da casa, ovvero quando non sono impegnati in attività di sportello o di ricevimento delle parti e non sono affaticati dagli spostamenti da e per il luogo di lavoro.
Lei è stato Presidente del Tribunale di Ariano Irpino, accorpato nel settembre 2013 a quello di Benevento. Crede sia più facile la commistione di elementi di “interesse” nei piccoli tribunali? Vantaggi e svantaggi di un piccolo Tribunale?
Ciò che è patologico, può accadere sia nei piccoli che nei grandi Tribunali. Dipende in definitiva dalla dirittura morale delle persone. Per il resto, sono fermamente convinto che una riforma della geografia giudiziaria si doveva fare: non era più possibile gestire Tribunali con pochissimi giudici in organico e in presenza delle stesse condizioni di incompatibilità esistenti nei mega Tribunali. Tuttavia la riforma fu fatta molto male, secondo criteri discutibili e piegandosi agli interessi locali più forti. Se aveva una logica accorpare i Tribunali di Ariano, Sant’Angelo dei Lombardi, Melfi ecc., non si capisce perché non siano stati accorpati anche i Tribunali di Larino, Vallo della Lucania, Isernia, Urbino (piccoli come Ariano) e Lagonegro. Per salvare quest’ultimo, data la presenza in loco di un autorevole esponente politico dell’epoca, gli fu accorpato l’ufficio di Sala Consilina, smembrando il territorio della Corte d’Appello di Salerno senza alcun ristoro perché non si ebbe il coraggio di toccare il distretto di Napoli (già rafforzato dal Tribunale di Napoli Nord). Ritengo, senza perifrasi, che il Tribunale di Avellino (con Sant’Angelo) avrebbe dovuto far capo alla Corte d’Appello di Salerno atteso peraltro che già la sezione del Tar e della Commissione Tributaria Regionale, hanno tale giurisdizione. Così come, soppresso Larino, se si voleva salvare la Corte d’Appello di Campobasso, bisognava inserire nel suo territorio il Tribunale di Benevento. Sono state fatte delle ingiustizie e in questo Ariano ha di che lamentarsi: non del fatto però, che sia stata privata del Tribunale.
Talvolta dalle denunce, al rinvio a giudizio, fino alla sentenza passata in giudicato, trascorrono anche più di dieci anni: come abbreviare gli estenuanti tempi della Giustizia?
Occorrerebbe innanzitutto un nuovo Giustiniano o meglio Triboniano, che togliesse dalle leggi il troppo e il vano. Semplificazione drastica delle procedure; unicità del rito civile nella forma più snella (le memorie ad esempio sono di regola la sterile ripetizione di ciò che è esposto nell’atto introduttivo); limitazione all’osso delle nullità, nuovo regime delle notifiche, che garantisca l’effettività della prima notifica al convenuto e all’indagato e poi affidi tutte le altre alla pec ai difensori; disincentivi seri all’appello e soprattutto, al ricorso per Cassazione. Direi addirittura eliminazione del divieto di reformatio in peius in appello. Ma tutto questo avrebbe il consenso politico? E la politica, sarebbe così forte da resistere anche al prevedibile dissenso degli avvocati? Un’ultima provocazione: la prescrizione del reato è un istituto di grande civiltà giuridica. Ma quando lo Stato ha garantito, nei tempi stabiliti, la pronuncia di un suo giudice terzo e imparziale, veramente si può ancora parlare di decorso del termine di prescrizione, cioè di disinteresse dello Stato per quella vicenda?
Attualità
Il Colonnello Angelo Zito nuovo Comandante Provinciale dei Carabinieri

Il Colonnello Angelo Zito ha assunto l’incarico di Comandante Provinciale dei Carabinieri di Avellino, subentrando al Colonnello Domenico Albanese, destinato a Roma quale Capo Ufficio presso lo Stato Maggiore del Comando Generale dell’Arma.
46enne, originario di San Marzano di San Giuseppe (TA), il Colonnello Zito ha intrapreso la carriera militare nel 1998, frequentando i corsi regolari dell’Accademia Militare di Modena e della Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma, conseguendo la laurea in Giurisprudenza. È sposato e padre di due figlie.
Nel biennio 2003-2005 ha prestato servizio presso il Battaglione Carabinieri Allievi Marescialli e Brigadieri con sede a Velletri, ricoprendo i ruoli di Comandante di Plotone e di Compagnia. Successivamente ha assunto incarichi di crescente responsabilità in reparti territoriali ad alta complessità operativa: prima come Comandante del Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Palermo-San Lorenzo, impegnato in delicate attività di contrasto alla criminalità organizzata e al traffico di stupefacenti; poi, dal 2008, come Comandante della Compagnia Carabinieri di Patti (ME), in un territorio caratterizzato da fenomeni criminali di particolare rilevanza.
Attualità
Curarsi nel Mezzogiorno costa caro

La salute costa cara in Italia, si resta impigliati nella rete del basso reddito che, nel Meridione è quasi la metà rispetto a quello del Nord, e delle lunghe liste di attesa, fattori che, limitano o impediscono laprevenzione e la cura delle patologie anche legateall’età. Pur essendo cresciuto, negli ultimi anni, il PIL del Sud (1,5%) rispetto a quello del Nord (0,4%), le differenze restano evidenti, il PIL medio per abitante è così ripartito: Nord Est 44.900 euro; Meridione 23.900 euro; media fissata a 36.100 euro.Non può essere negato il legame tra il reddito alto e le buone condizioni di salute. L’indagine condotta dal giornale l’Avvenire conferma l’ipotesi, tant’è che i possessori di un reddito tra i 50 ed i 70 mila eurospendono 300 euro al mese per le assicurazioni sanitarie e visite specialistiche private ottenendoadeguate risposte ai bisogni personali, mentre nel Meridione tale somma è destinata alle necessitàquotidiane e non per curare le patologie. Il SSN pur essendo universale, relega una fetta sempre maggiore della popolazione nella zona grigia della mancata assistenza sanitaria. La conseguenza è l’aggravarsi delle condizioni di salute che si riflettono sul SSR costretto ad erogare prestazioni ad elevata intensità collegate alla probabile emissione della pensione di invalidità a carico dell’INPS. L’Italia è sempre più divisa, le aspettative di vita sono collegate al luogo di residenza, nel meridionesi muore tre o quattro anni prima rispetto al Nord in conseguenza dei servizi sanitari insufficienti e delle lunghe liste di attesa. Il welfare è ridotto al minimo,con la spesa pro-capite che, secondo l’Istat, è così ripartita: Mezzogiorno 78 euro, Centro 165 euro,Nord-Ovest 162 euro, Nord- Est di 207 euro.Nemmeno i bambini del Sud si salvano, i posti negli asili nido ogni 100 bambini sono 17 mentre nel Centro-Nord, in media, sono circa 37. Non cambia la musica con i servizi delle RSA offerti agli anziani:su 10 mila abitanti nel Sud i posti letto sono 37, la media nazionale è di 69, mentre in Campania è di 20posti letto.
Il piatto è servito, da 164 il Paese è diviso e sperequato, né si intravede la volontà politica di ridurre i divari territoriali.
da: Qf QuiFinanza
Al Sud si vive 3 anni in meno che al Nord, Italia sempre più divisa
Dall’aspettativa di vita al Pil, passando per reddito e servizi: il nuovo rapporto Istat evidenzia le profonde disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud Italia
Giorgio Pirani
GIORNALISTA ECONOMICO-CULTURALE
Pubblicato: 28 Maggio 2025 12:33
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ANSANord più ricco e con più servizi, il Sud no: tutte le differenze
L’Istat traccia una mappa dell’Italia che è frammentata, con forti differenze tra Nord e Sud. Un esempio, sulla speranza di vita, che a Trento è pari a 84,7 anni mentre in Campania è di 81,7, esattamente di tre anni. Questo e altri dati sono stati presentati dall’Istituto all’evento sullo stato di attuazione e sulle prospettive del federalismo fiscale.
Secondo i dati illustrati dall’Istituto, tra il 2004 e il 2024 l’aspettativa di vita alla nascita è passata da 80,7 a 83,4 anni, con un aumento più marcato per gli uomini (da 77,9 a 81,4 anni) rispetto alle donne (da 83,6 a 85,5 anni).
Come cambiano le aspettative di vita
Le province autonome di Trento e Bolzano si confermano le aree con la maggiore longevità, con una speranza di vita rispettivamente di 84,7 e 84,6 anni. All’estremo opposto, Campania e Sicilia restano in coda con valori di 81,7 e 82,1 anni. Un’intera vita condotta a Trento e a Napoli, dunque, ha statisticamente un impatto ben differente su una persona.
Il quadro degli ultimi vent’anni evidenzia un netto svantaggio per il Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, con una tendenza all’ampliamento dei divari.
Particolarmente significativi alcuni casi:
• la Calabria nel 2004 era in linea con la media nazionale, ma nel 2024 registra uno svantaggio di 1,1 anni;
• in Sicilia invece il divario è passato da -0,6 anni nel 2004 a -1,3 anni nel 2024 rispetto alla media nazionale.
Differenze anche per il welfare
Infine, l’Istat segnala che anche la spesa per il welfare territoriale riflette queste disparità. La spesa pro-capite nelle diverse aree del Paese è così distribuita:
• Mezzogiorno: 78 euro
• Isole: 144 euro
• Centro: 165 euro
• Nord-Ovest: 162 euro
• Nord-Est: 207 euro
Pil in crescita, ma il divario Nord-Sud resta marcato
Non solo l’età, a marcare un solco tra Nord e Sud è soprattutto la crescita delle due macro aree. Nel 2023 il Pil nazionale in volume è cresciuto dello 0,7% rispetto all’anno precedente, un dato in linea con la media italiana nel Nord-ovest, dove l’aumento è stato appunto dello 0,7%. La crescita è risultata più sostenuta nel Mezzogiorno (+1,5%), mentre è stata più contenuta al Centro (+0,3%) e nel Nord-est (+0,4%).
Il Pil medio per abitante nel Nord-ovest è pari a 44.700 euro, quasi il doppio rispetto al Mezzogiorno (23.900 euro) e ben 8.600 euro in più della media nazionale, fissata a 36.100 euro.
Nel resto del Paese:
• nel Nord-est il dato si attesta a 42.500 euro;
• nel Centro è pari a 38.600 euro;
• a livello regionale, il valore più alto si registra nella provincia autonoma di Bolzano con 59.800 euro;
• il minimo è in Calabria, ferma a 21.000 euro.
Disparità nel reddito famigliare
Anche il reddito disponibile delle famiglie mostra forti disomogeneità. Nel 2023, la media nazionale è stata di 22.400 euro per abitante. A livello territoriale nel Nord-ovest si è raggiunta quota 26.300 euro, mentre nel Mezzogiorno ci si è fermati ad una soglia ben più bassa, pari a 17.100 euro.
L’intervento redistributivo dello Stato ha determinato un incremento del reddito disponibile medio nazionale pari al 7,8% nel 2023, corrispondente a +1.734 euro per abitante. Tuttavia, l’effetto redistributivo varia sensibilmente tra le aree:
• nel Mezzogiorno l’incremento incide per il 17,5% sul totale del reddito disponibile;
• nel Nord-ovest è del 2,3%;
• più alto nel Nord-est, pari a 4,7%;
• infine il Centro con 7,1%
Male anche nei servizi per bambini e anziani
Il divario tra territori si riflette anche nell’accesso ai servizi. Per quanto riguarda i posti disponibili negli asili nido ogni 100 bambini:
• nel Sud Italia sono poco più di 17;
• al Centro 38,8;
• nel Nord-est 37,5;
• il Nord-ovest 35.
Nei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, i posti letto ogni 10mila abitanti sono 37 nel Mezzogiorno, contro una media nazionale di 69,1. Il livello più basso si registra in Campania con 20,2, mentre quello più alo è della Provincia autonoma di Trento con 151,1.
Attualità
Occhi di aquila, mani di vento: le donne di miniera in Sardegna

Roberto Carta, regista sardo, ha raccolto le testimonianze delle coraggiose donne che hanno lavorato in miniera: storie di progresso e di conquiste. Il documentario, nella rosa finalista dell’AIFF
“Nel 1938 lo sviluppo intensivo delle miniere carbonifere darà al fascismo il combustile per la guerra. Carbonia, capitale dell’oro nero nazionale, comincerà ad attrarre i disoccupati delle campagne”. Esordisce così il lungometraggio di Roberto Carta, dedicato al lavoro delle donne sarde nelle miniere, nella rosa dei finalisti alla tredicesima edizione dell’Ariano International Film Festival. Molte le crude testimonianze di donne che hanno lavorato in miniera o che raccontano indirettamente la vita delle loro madri o parenti strette. Anna Simbula, riferisce della madre, Delfina Dessì, nata a Santadi nel 1921 e morta appena prima di compiere cento anni. Delfina aveva lavorato nella miniera carbonifera di Carbonia, facendo la cernita senza mai fermarsi: non poteva, poiché con le altre formava una catena di montaggio. Viaggiava di notte sia all’andata che al ritorno, insieme ad altre cernitrici: tutte avevano paura, poiché c’erano i cacciatori e persino un bandito, del cui fucile vedevano il luccichio, nel tratto di strada che percorrevano. Così lo attraversavano di corsa, nel timore che potesse sparare anche a loro. Delfina, dormiva, come le sue colleghe, soltanto un paio d’ore, ma era una donna forte, che “non si piegava”. Una donna instancabile che, ricorda con orgoglio la figlia, dopo aver lavorato in miniera, continuava a farlo anche a casa. Era entrata a lavorare giovanissima, nel 1937 e ci era rimasta fino al 1951. È stata tra coloro che oltre al nome, hanno lasciato sui muri delle cave, anche l’impronta delle mani.
Alla fine degli anni Trenta, nelle miniere del Sulcis erano occupate 254 donne, impiegate nei lavori di cernita o nelle laverie di Serbariu e Bacu Abis, altre lavoravano nei servizi, negli alberghi operai e nelle lavanderie. Doloretta Ledda racconta di aver lavorato prima in laveria, poi alla “noia”, un nastro adibito a trasportare i vagoni al piano superiore. Lavorava l’intera settimana in turni quotidiani dalle 8 alle 17, con un‘ora di stacco per il pranzo: aveva scelto di lavorare anche di domenica, dalle 7 alle 14. Genoveffa Valdarchi, aveva 28 anni e nonostante fosse madre di tre bambini, uno dei quali da allattare, copriva ben tre turni, come tutti gli altri operai. Il primo turno iniziava alle 7 di mattina con uscita alle 15; il secondo turno partiva alle 15 da Sirai, un quartiere di Carbonia un po’ distante, che raggiungeva a piedi, e terminava alle 22. L’ultimo turno era dalle 22 alle 7, ma per consentirle l’allattamento, le concedevano di uscire 2 ore prima. Ricorda delle sue paure di notte, quando da sola doveva percorrere le strade e si avvicinava a dei minatori, anche se sconosciuti, per superare lo sconforto. Faustina Piras racconta della possibilità di scegliere di rimanere più tempo in miniera poiché c’era molto lavoro. Lei in un mese, avendo lavorato “36 giornate”, aveva percepito 180 lire di stipendio, non certo una grande cifra, ma quanto le aveva consentito di iniziare ad acquistare il corredo che le serviva per sposarsi. Lavorare le piaceva, anche se non era un gioco: bisognava evitare di distrarsi a parlare ed escludere rapidamente le pietre dai nastri, altrimenti le avrebbero dovute togliere le ultime lavoranti, perché non scendessero con la parte buona del carbone. Iride Peis, insegnante elementare di Guspini (Sulcis-Iglesiente), si è appassionata alla storia mineraria del territorio fin da bambina, quando il nonno, fonditore, le parlava del suo lavoro nelle miniere di Montevecchio. Avendo sposato il medico della miniera, è stata ulteriormente facilitata nella conoscenza della materia, che a sua volta trasmette agli alunni. Nel 1855, l’ingegner Nicolay, direttore della miniera di Monteponi, racconta Iride, aveva visto le donne lavorare nei cortili delle case pulendo grano, fave e ceci e così, gli era venuta l’idea di portarle a lavorare in miniera a separare il minerale utile da quello sterile: “saranno più brave perché sono più attente e più svelte. Queste donne hanno occhi di aquila e mani di vento. Inoltre costeranno la metà degli uomini”. I cernitori (uomini) c’erano già, ma erano “il pidocchio in mezzo alla farina”, non sapevano muoversi bene, rispetto alle donne, – precisa Iride. “Sul salario, continua Iride, – si evidenzia la prima discriminazione, finché nel 1940 le cernitrici saranno sostituite dalle macchine. Le donne però cominceranno a farsi valere formando gruppi e associazioni, appoggiando proteste e scioperi dei loro familiari, anche per lunghi periodi, partecipando esse stesse in prima persona, resistendo alle pressioni”. Nadia Gallico Spano (ndr, tra le 21 donne elette nella Costituente, poi deputata del PCI) ricorda le lotte delle donne, operaie e contadine uccise nel rivendicare i propri diritti o per difendere quelli dei propri uomini. “Le donne sfidavano le violenze poliziesche, venivano persino arrestate e accettavano coraggiosamente anche lunghi periodi di sciopero, come quello di 72 giorni, in cui non ricevettero nessun salario e una popolazione di circa 52 mila persone, fu ridotta allo stremo”. Al convegno nazionale dell’UDI di Firenze del novembre 1948 la Spano comunicò della dura lotta in difesa delle miniere e della drammatica condizione delle famiglie di Carbonia prive di mezzi, ponendo l’accento sulla condizione femminile, che commosse le donne italiane. Grande combattente, Nadia Gallico Spano era amata e apprezzata nell’ambiente e a Carbonia in particolare, perché voleva donne indipendenti, coscienti della propria condizione e capaci di autogestirsi.
Roberto Carta, autore del documentario, che attualmente vive a Bologna, ma è affezionato alla sua terra, dove torna ogni volta che può, ci ha rivelato che l’idea di raccogliere le testimonianze femminili, gli è maturata a seguito dei racconti ascoltati da piccolo: i suoi nonni avevano lavorato in miniera e una sua zia, Albina, era morta a seguito di un incidente in miniera. Diversi erano stati gli uomini che avevano subito incidenti gravi in cui avevano perso gli arti o erano morti, ma lei è stata l’unica donna a perdere la vita: il suo vestito era rimasto impigliato in un rullo che l’aveva risucchiata. Non è stato facile realizzare il progetto, – ci ha raccontato – soprattutto per carenze di budget: da quando lo ha ideato a quando lo ha concluso, ambientandolo nei luoghi e nelle miniere in cui hanno lavorato le donne, sono passati due anni. Per la sua rilevanza sociale, ha ottenuto il contributo della Regione Sardegna.
Ancora il regista: “Come testimoniano nel documentario, le donne rimpiangono ancora il lavoro in miniera: erano contente di farlo, socializzavano, cantavano, e soprattutto, erano autonome, non erano costrette a stare a casa, come invece accadeva una volta sposate. Con il lavoro in miniera, avevano raggiunto la loro indipendenza, smarcandosi dal predominio maschile. Non lavoravano in condizioni facili, venivano pagate pochissimo, ma il loro sacrificio è servito ad aprire la strada alle altre donne”. Un documentario da vedere e diffondere: tra il pubblico, i giovani, nelle scuole, per comprendere quali sacrifici siano state capaci di fare le donne coraggiose che ci hanno preceduto per consentirci quelle conquiste che oggi troppo spesso si danno per scontate e di cui nella maggior parte dei casi non si conoscono le origini. Un percorso di emancipazione pagato a caro prezzo, per consentirci la libertà di scegliere.
Breve biografia di Roberto Carta
Roberto Carta, nato nel 1976 a Carbonia (SU), si è laureato al Dams di Bologna, indirizzo cinema. Dal 2004 al 2008 è stato aiuto regista nei lungometraggi, “Il vento fa il suo giro” e “L’uomo che verrà”, entrambi diretti da Giorgio Diritti (ndr, regista di: Volevo nascondermi, sulla vita di Ligabue, magistralmente interpretato da Elio Germano). È stato redattore per la trasmissione televisiva di Carlo Lucarelli (10 puntate) “Milonga Station”, in onda su Rai Tre.
Nel 2014 ha sceneggiato e diretto “Sinuaria”, cortometraggio ambientato nell’isola dell’Asinara, selezionato in numerosi festival cinematografici, e vincitore di 18 premi, tra cui la nomination ai David di Donatello 2015. Nel 2017 il regista ha diretto e montato: il corto – documentario, “Custodi del proprio territorio”, prodotto dall’ISMEA e il videoclip “Michimaus”, della cantante e attrice Angela Baraldi. Nel 2020 ha realizzato il cortometraggio “Lasciami andare” (ndr, sul banditismo sardo), ambientato nella Sardegna barbaricina, prodotto col sostegno della Regione Sardegna.
“Donne di miniera” (2023), è il suo primo documentario: prodotto da Mario Pezzi, ha una durata di 55 minuti. Le musiche sono di Stefano Tore su tema di Maria Teresa Cau, montaggio di Erika Manoni.
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