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Coronavirus, da Wuhan ad Ariano Irpino: tappe significative in breve, di una pandemia

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Il 17 novembre 2019 veniva registrato il primo caso di contagio da Covid-19 (un uomo di 55 anni), nella provincia dello Hubei (capoluogo, Wuhan), ma la notizia sarebbe stata diffusa dal governo cinese solo il 13 gennaio 2020. Il 12 dicembre, l’emittente televisiva statale cinese CCTV, riferiva in una trasmissione, che era stato rilevato per la prima volta un nuovo focolaio virale, nella città di Wuhan (11 milioni di abitanti, la settima più grande della Cina). Il 31 dicembre 2019, la Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan segnalava all’Organizzazione Mondiale della Sanità, un cluster di casi di polmonite da eziologia ignota nella città di Wuhan. A inizio gennaio 2020, Wuhan aveva ormai riscontrato decine di casi di coronavirus e posto sotto osservazione centinaia di persone. Il 10 gennaio, l’OMS divulgava la notizia che in Cina da metà dicembre, era scoppiata una malattia respiratoria da un nuovo ceppo di coronavirus, generata da un patogeno della stessa famiglia dei coronavirus (SARS-CoV-2) da cui si originavano Sars e Mers, oltre ai raffreddori. Dalle prime indagini, era emerso che i contagiati erano frequentatori assidui del mercato umido di Wuhan, che vendeva frutti di mare all’ingrosso, pesce, polli, fagiani, pipistrelli, marmotte, serpenti, organi di coniglio e animali selvatici, da cui l’ipotesi che il contagio fosse partito da qualche prodotto di origine animale acquistato lì. Il 21 gennaio, mentre si registrava il primo caso negli Stati Uniti, le autorità sanitarie locali e l’OMS, annunciavano che il nuovo coronavirus, passato probabilmente dall’animale all’essere umano (zoonosi), si trasmette anche da uomo a uomo. Il Ministero della Salute cominciava a raccomandare di non andare in Cina, salvo stretta necessità. Nel frattempo, il 22 gennaio Wuhan veniva isolata, impedendo ai suoi abitanti persino di uscire dalle case, e si annullavano i festeggiamenti per il Capodanno cinese. La quarantena, nel tentativo di contenere la diffusione del virus, sarebbe stata estesa successivamente a tutta la provincia dello Hubei, raggiungendo ben 60 milioni di persone. In Italia, i pochissimi casi iniziali erano tutti provenienti dalla Cina: dal 29 gennaio, due turisti cinesi di Wuhan contagiati, erano stati ricoverati in isolamento allo Spallanzani di Roma, seguiti da un ricercatore italiano positivo al virus e proveniente dalla Cina, e un diciassettenne, rimasto bloccato a lungo a Wuhan a causa di sintomi simil-influenzali, non positivo al coronavirus, ma ugualmente tenuto sotto osservazione e ricoverato. Tutti dichiarati guariti il 26 febbraio. Alla fine di gennaio, il rischio di diffusione dell’epidemia, da moderato passava ad alto, tanto che l’OMS, tra il 26 e il 27 gennaio scriveva che era: “molto alto per la Cina e alto, per il resto del mondo”. Nella serata del 30 gennaio, l’OMS dichiarava l’emergenza sanitaria pubblica internazionale e l’Italia (unica in Europa) con un’ordinanza del Ministro della Salute, bloccava i voli da e per la Cina per 90 giorni. L’8 febbraio, l’OMS scriveva che in Cina i contagi si andavano stabilizzando: il numero di nuovi casi giornalieri sembrava progressivamente in calo. Il 31 gennaio il Governo italiano dichiarava lo stato di emergenza, stanziando i primi fondi e nominando Commissario straordinario per l’emergenza, il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli. L’11 febbraio la malattia da coronavirus, veniva definita Covid-19 e il virus, Sars-CoV-2. Il 15 febbraio in Francia, avveniva il primo decesso europeo al di fuori dell’Asia: un turista cinese di 80 anni. Dal 18 febbraio emergevano diversi casi di coronavirus in Lombardia, dove si verificava il primo caso di trasmissione secondaria a Codogno, seguito da: Castiglione D’Adda, Casalpusterlengo e altri Comuni, in Veneto. Il 23 febbraio il Consiglio dei ministri varava un primo Decreto legge contenente misure per il divieto di accesso e allontanamento nei Comuni in cui erano presenti focolai e la sospensione di manifestazioni ed eventi. Il 24 febbraio, i ricercatori dell’OMS giungevano alla conclusione che la diffusione del virus in Cina aveva raggiunto il picco tra il 23 gennaio e il 2 febbraio, allorquando, aveva cominciato a diminuire notevolmente. Fra fine febbraio e inizio marzo 2020, l’epidemia crescerà invece rapidamente, in Italia e anche in altri Stati europei e non, come Corea del Sud e Iran. Il 28 febbraio veniva pubblicato il Report of the WHO-China Joint Mission on Coronavirus Disease 2019 (Covid-19), in cui si precisava che il virus aveva origine zoonotica (trasmissione da animali), e sempre il 28 febbraio, l’OMS elevava la minaccia epidemica da coronavirus a livello mondiale, come molto alta. Il 23 febbraio ad Ariano Irpino, una festa di Carnevale cominciava a diffondere il contagio nell’inconsapevolezza dei partecipanti. Il 4 marzo, quando secondo la Protezione civile, i contagiati erano già 2.700, il governo chiudeva scuole e università in tutta Italia. Il 5 marzo, un medico di ritorno da un viaggio all’estero, bypassando il pre-triage, portava sua moglie con i sintomi del coronavirus, presso l’Ospedale Frangipane, passando per il Pronto soccorso, che pertanto veniva immediatamente chiuso, per essere sanificato. In quegli stessi periodi, un barista, rientrato da Milano e ignaro della sua positività al virus, infettava vari clienti, per poi aggravarsi a sua volta. I focolai così originati ad Ariano, ne alimentavano altri, tra cui quello del Centro residenziale per anziani. Intanto, il contagio cresceva esponenzialmente in Lombardia e Veneto, diffondendosi anche in Emilia Romagna e in Piemonte. L’8 marzo, un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) poneva in isolamento la Lombardia, in assoluto la più colpita, e 14 province, che pertanto diventavano Zona rossa. Intanto il virus dilagava ovunque, mietendo contagiati e morti, tanto che l’OMS, l’11 marzo dichiarava la Covid-19, pandemia. In Italia, dove dal 9 era stata imposta una quarantena nazionale, limitando i viaggi all’estrema necessità di lavoro o sanitaria, venivano chiusi anche ristoranti e bar. Anche Ariano Irpino, su ordinanza del Presidente della Regione Campania, diventava Zona rossa, subendo la chiusura dal 15 marzo al 22 aprile. Fermate le attività commerciali non di prima necessità, chiuse le persone in casa, in un lockdown che consentiva solo di uscire, indossando mascherine e guanti, lo stretto necessario per recarsi a fare la spesa, chiusi gli esercizi pubblici e con loro, i Tribunali, che avrebbero ripreso l’attività a ranghi ridotti dal 12 maggio. Anche Ariano, su una popolazione di circa 22.000 abitanti, ha dato il suo alto “tributo” di infettati e vittime da Covid-19: ben 27 sono stati i morti, che, ricordiamolo ancora una volta, non sono numeri, ma esseri umani, amici, conoscenti, familiari, dalle vite spezzate. Persone morte in solitudine, senza il conforto dei familiari, a cui rimane non solo il lutto da elaborare per la loro perdita, ma anche il dramma della assurda modalità di morte dei loro cari. In Italia, al 18 giugno, secondo i dati del Ministero della Salute, i casi dall’inizio della pandemia, ammontano a 238.159, di cui 23.101 attualmente ancora positivi, mentre i deceduti sono 34.514 e i guariti 180.544. La percentuale maggiore dei deceduti, in Lombardia (49,8%), seguita da Emilia Romagna (12,8%), Piemonte (8,5%), e Veneto (6%). Dopo il Decreto legge 33 del 2020, che disciplina la fine delle limitazioni agli spostamenti e la riapertura delle attività produttive, commerciali e sociali, dal 18 maggio al 31 luglio, con il DCPM dell’11 giugno, viene autorizzata la ripresa di ulteriori attività. Ed è notizia delle ultime ore, che nelle acque reflue di Torino e Milano del 18 dicembre (2019), si sono trovate tracce dell’RNA del virus, che fanno risalire la sua circolazione in Italia a quel periodo, sebbene ulteriori recentissimi studi, dicano che potrebbe essere arrivato da noi fin da ottobre. Intanto in India il contagio continua al ritmo di 13.000 persone al giorno e molto preoccupante è la situazione in Brasile, Messico e Perù. Nel mondo finora, gli infettati dal virus sono circa 8 milioni e mezzo, con mezzo milione di morti, cifre che temiamo siano destinate ad aumentare. L’Istituto Superiore di Sanità, ricorda che il virus non è stato ancora sconfitto: la riapertura delle attività, necessaria per scongiurare un totale default, non deve farci distrarre. Sebbene i positivi siano meno contagiosi, i contagiati tornano a crescere: la strada per uscirne sarà ancora lunga, almeno finché non sarà individuato un vaccino. Nel frattempo, si raccomanda di non abbassare la guardia, continuiamo tutti a comportarci con senso di responsabilità, continuiamo ad osservare il distanziamento sociale e usiamo i dispositivi di protezione a partire dalle mascherine, laviamo spesso le mani e disinfettiamole quando non possiamo lavarci: seguire scrupolosamente queste indicazioni, può salvarci la vita.

 

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Il Colonnello Angelo Zito nuovo Comandante Provinciale dei Carabinieri

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Il Colonnello Angelo Zito ha assunto l’incarico di Comandante Provinciale dei Carabinieri di Avellino, subentrando al Colonnello Domenico Albanese, destinato a Roma quale Capo Ufficio presso lo Stato Maggiore del Comando Generale dell’Arma.

46enne, originario di San Marzano di San Giuseppe (TA), il Colonnello Zito ha intrapreso la carriera militare nel 1998, frequentando i corsi regolari dell’Accademia Militare di Modena e della Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma, conseguendo la laurea in Giurisprudenza. È sposato e padre di due figlie.

Nel biennio 2003-2005 ha prestato servizio presso il Battaglione Carabinieri Allievi Marescialli e Brigadieri con sede a Velletri, ricoprendo i ruoli di Comandante di Plotone e di Compagnia. Successivamente ha assunto incarichi di crescente responsabilità in reparti territoriali ad alta complessità operativa: prima come Comandante del Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Palermo-San Lorenzo, impegnato in delicate attività di contrasto alla criminalità organizzata e al traffico di stupefacenti; poi, dal 2008, come Comandante della Compagnia Carabinieri di Patti (ME), in un territorio caratterizzato da fenomeni criminali di particolare rilevanza.

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Curarsi nel Mezzogiorno costa caro

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La salute costa cara in Italia, si resta impigliati nella rete del basso reddito che, nel Meridione è quasi la metà rispetto a quello del Nord, e delle lunghe liste di attesa, fattori che, limitano o impediscono laprevenzione e la cura delle patologie anche legateall’età. Pur essendo cresciuto, negli ultimi anni, il PIL del Sud (1,5%) rispetto a quello del Nord (0,4%), le differenze restano evidenti, il PIL medio per abitante è così ripartito: Nord Est 44.900 euro; Meridione 23.900 euro; media fissata a 36.100 euro.Non può essere negato il legame tra il reddito alto e le buone condizioni di salute. L’indagine condotta dal giornale l’Avvenire conferma l’ipotesi, tant’è che i possessori di un reddito tra i 50 ed i 70 mila eurospendono 300 euro al mese per le assicurazioni sanitarie e visite specialistiche private ottenendoadeguate risposte ai bisogni personali, mentre nel Meridione tale somma è destinata alle necessitàquotidiane e non per curare le patologie. Il SSN pur essendo universale, relega una fetta sempre maggiore della popolazione nella zona grigia della mancata assistenza sanitaria. La conseguenza è l’aggravarsi delle condizioni di salute che si riflettono sul SSR costretto ad erogare prestazioni ad elevata intensità collegate alla probabile emissione della pensione di invalidità a carico dell’INPS. L’Italia è sempre più divisa, le aspettative di vita sono collegate al luogo di residenza, nel meridionesi muore tre o quattro anni prima rispetto al Nord in conseguenza dei servizi sanitari insufficienti e delle lunghe liste di attesa. Il welfare è ridotto al minimo,con la spesa pro-capite che, secondo l’Istat, è così ripartita: Mezzogiorno 78 euro, Centro 165 euro,Nord-Ovest 162 euro, Nord- Est di 207 euro.Nemmeno i bambini del Sud si salvano, i posti negli asili nido ogni 100 bambini sono 17 mentre nel Centro-Nord, in media, sono circa 37. Non cambia la musica con i servizi delle RSA offerti agli anziani:su 10 mila abitanti nel Sud i posti letto sono 37, la media nazionale è di 69, mentre in Campania è di 20posti letto.

Il piatto è servito, da 164 il Paese è diviso e sperequato, né si intravede la volontà politica di ridurre i divari territoriali.

da: Qf QuiFinanza

Al Sud si vive 3 anni in meno che al Nord, Italia sempre più divisa

Dall’aspettativa di vita al Pil, passando per reddito e servizi: il nuovo rapporto Istat evidenzia le profonde disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud Italia

Giorgio Pirani

GIORNALISTA ECONOMICO-CULTURALE

Pubblicato: 28 Maggio 2025 12:33

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ANSANord più ricco e con più servizi, il Sud no: tutte le differenze

L’Istat traccia una mappa dell’Italia che è frammentata, con forti differenze tra Nord e Sud. Un esempio, sulla speranza di vita, che a Trento è pari a 84,7 anni mentre in Campania è di 81,7, esattamente di tre anni. Questo e altri dati sono stati presentati dall’Istituto all’evento sullo stato di attuazione e sulle prospettive del federalismo fiscale.

Secondo i dati illustrati dall’Istituto, tra il 2004 e il 2024 l’aspettativa di vita alla nascita è passata da 80,7 a 83,4 anni, con un aumento più marcato per gli uomini (da 77,9 a 81,4 anni) rispetto alle donne (da 83,6 a 85,5 anni).

Come cambiano le aspettative di vita

Le province autonome di Trento e Bolzano si confermano le aree con la maggiore longevità, con una speranza di vita rispettivamente di 84,7 e 84,6 anni. All’estremo opposto, Campania e Sicilia restano in coda con valori di 81,7 e 82,1 anni. Un’intera vita condotta a Trento e a Napoli, dunque, ha statisticamente un impatto ben differente su una persona.

Il quadro degli ultimi vent’anni evidenzia un netto svantaggio per il Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, con una tendenza all’ampliamento dei divari.

Particolarmente significativi alcuni casi:

• la Calabria nel 2004 era in linea con la media nazionale, ma nel 2024 registra uno svantaggio di 1,1 anni;

• in Sicilia invece il divario è passato da -0,6 anni nel 2004 a -1,3 anni nel 2024 rispetto alla media nazionale.

Differenze anche per il welfare

Infine, l’Istat segnala che anche la spesa per il welfare territoriale riflette queste disparità. La spesa pro-capite nelle diverse aree del Paese è così distribuita:

• Mezzogiorno: 78 euro

• Isole: 144 euro

• Centro: 165 euro

• Nord-Ovest: 162 euro

• Nord-Est: 207 euro

Pil in crescita, ma il divario Nord-Sud resta marcato

Non solo l’età, a marcare un solco tra Nord e Sud è soprattutto la crescita delle due macro aree. Nel 2023 il Pil nazionale in volume è cresciuto dello 0,7% rispetto all’anno precedente, un dato in linea con la media italiana nel Nord-ovest, dove l’aumento è stato appunto dello 0,7%. La crescita è risultata più sostenuta nel Mezzogiorno (+1,5%), mentre è stata più contenuta al Centro (+0,3%) e nel Nord-est (+0,4%).

Il Pil medio per abitante nel Nord-ovest è pari a 44.700 euro, quasi il doppio rispetto al Mezzogiorno (23.900 euro) e ben 8.600 euro in più della media nazionale, fissata a 36.100 euro.

Nel resto del Paese:

• nel Nord-est il dato si attesta a 42.500 euro;

• nel Centro è pari a 38.600 euro;

• a livello regionale, il valore più alto si registra nella provincia autonoma di Bolzano con 59.800 euro;

• il minimo è in Calabria, ferma a 21.000 euro.

Disparità nel reddito famigliare

Anche il reddito disponibile delle famiglie mostra forti disomogeneità. Nel 2023, la media nazionale è stata di 22.400 euro per abitante. A livello territoriale nel Nord-ovest si è raggiunta quota 26.300 euro, mentre nel Mezzogiorno ci si è fermati ad una soglia ben più bassa, pari a 17.100 euro.

L’intervento redistributivo dello Stato ha determinato un incremento del reddito disponibile medio nazionale pari al 7,8% nel 2023, corrispondente a +1.734 euro per abitante. Tuttavia, l’effetto redistributivo varia sensibilmente tra le aree:

• nel Mezzogiorno l’incremento incide per il 17,5% sul totale del reddito disponibile;

• nel Nord-ovest è del 2,3%;

• più alto nel Nord-est, pari a 4,7%;

• infine il Centro con 7,1%

Male anche nei servizi per bambini e anziani

Il divario tra territori si riflette anche nell’accesso ai servizi. Per quanto riguarda i posti disponibili negli asili nido ogni 100 bambini:

• nel Sud Italia sono poco più di 17;

• al Centro 38,8;

• nel Nord-est 37,5;

• il Nord-ovest 35.

Nei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, i posti letto ogni 10mila abitanti sono 37 nel Mezzogiorno, contro una media nazionale di 69,1. Il livello più basso si registra in Campania con 20,2, mentre quello più alo è della Provincia autonoma di Trento con 151,1.

Istat

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Occhi di aquila, mani di vento: le donne di miniera in Sardegna

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Roberto Carta, regista sardo, ha raccolto le testimonianze delle coraggiose donne che hanno lavorato in miniera: storie di progresso e di conquiste. Il documentario, nella rosa finalista dell’AIFF

“Nel 1938 lo sviluppo intensivo delle miniere carbonifere darà al fascismo il combustile per la guerra. Carbonia, capitale dell’oro nero nazionale, comincerà ad attrarre i disoccupati delle campagne”. Esordisce così il lungometraggio di Roberto Carta, dedicato al lavoro delle donne sarde nelle miniere, nella rosa dei finalisti alla tredicesima edizione dell’Ariano International Film Festival. Molte le crude testimonianze di donne che hanno lavorato in miniera o che raccontano indirettamente la vita delle loro madri o parenti strette. Anna Simbula, riferisce della madre, Delfina Dessì, nata a Santadi nel 1921 e morta appena prima di compiere cento anni. Delfina aveva lavorato nella miniera carbonifera di Carbonia, facendo la cernita senza mai fermarsi: non poteva, poiché con le altre formava una catena di montaggio. Viaggiava di notte sia all’andata che al ritorno, insieme ad altre cernitrici: tutte avevano paura, poiché c’erano i cacciatori e persino un bandito, del cui fucile vedevano il luccichio, nel tratto di strada che percorrevano. Così lo attraversavano di corsa, nel timore che potesse sparare anche a loro. Delfina, dormiva, come le sue colleghe, soltanto un paio d’ore, ma era una donna forte, che “non si piegava”. Una donna instancabile che, ricorda con orgoglio la figlia, dopo aver lavorato in miniera, continuava a farlo anche a casa. Era entrata a lavorare giovanissima, nel 1937 e ci era rimasta fino al 1951. È stata tra coloro che oltre al nome, hanno lasciato sui muri delle cave, anche l’impronta delle mani.                                                                                                                                                                      

Alla fine degli anni Trenta, nelle miniere del Sulcis erano occupate 254 donne, impiegate nei lavori di cernita o nelle laverie di Serbariu e Bacu Abis, altre lavoravano nei servizi, negli alberghi operai e nelle lavanderie. Doloretta Ledda racconta di aver lavorato prima in laveria, poi alla “noia”, un nastro adibito a trasportare i vagoni al piano superiore. Lavorava l’intera settimana in turni quotidiani dalle 8 alle 17, con un‘ora di stacco per il pranzo: aveva scelto di lavorare anche di domenica, dalle 7 alle 14. Genoveffa Valdarchi, aveva 28 anni e nonostante fosse madre di tre bambini, uno dei quali da allattare, copriva ben tre turni, come tutti gli altri operai. Il primo turno iniziava alle 7 di mattina con uscita alle 15; il secondo turno partiva alle 15 da Sirai, un quartiere di Carbonia un po’ distante, che raggiungeva a piedi, e terminava alle 22. L’ultimo turno era dalle 22 alle 7, ma per consentirle l’allattamento, le concedevano di uscire 2 ore prima. Ricorda delle sue paure di notte, quando da sola doveva percorrere le strade e si avvicinava a dei minatori, anche se sconosciuti, per superare lo sconforto. Faustina Piras racconta della possibilità di scegliere di rimanere più tempo in miniera poiché c’era molto lavoro. Lei in un mese, avendo lavorato “36 giornate”, aveva percepito 180 lire di stipendio, non certo una grande cifra, ma quanto le aveva consentito di iniziare ad acquistare il corredo che le serviva per sposarsi. Lavorare le piaceva, anche se non era un gioco: bisognava evitare di distrarsi a parlare ed escludere rapidamente le pietre dai nastri, altrimenti le avrebbero dovute togliere le ultime lavoranti, perché non scendessero con la parte buona del carbone. Iride Peis, insegnante elementare di Guspini (Sulcis-Iglesiente), si è appassionata alla storia mineraria del territorio fin da bambina, quando il nonno, fonditore, le parlava del suo lavoro nelle miniere di Montevecchio. Avendo sposato il medico della miniera, è stata ulteriormente facilitata nella conoscenza della materia, che a sua volta trasmette agli alunni. Nel 1855, l’ingegner Nicolay, direttore della miniera di Monteponi, racconta Iride, aveva visto le donne lavorare nei cortili delle case pulendo grano, fave e ceci e così, gli era venuta l’idea di portarle a lavorare in miniera a separare il minerale utile da quello sterile: “saranno più brave perché sono più attente e più svelte. Queste donne hanno occhi di aquila e mani di vento. Inoltre costeranno la metà degli uomini”. I cernitori (uomini) c’erano già, ma erano “il pidocchio in mezzo alla farina”, non sapevano muoversi bene, rispetto alle donne, – precisa Iride. “Sul salario, continua Iride, – si evidenzia la prima discriminazione, finché nel 1940 le cernitrici saranno sostituite dalle macchine. Le donne però cominceranno a farsi valere formando gruppi e associazioni, appoggiando proteste e scioperi dei loro familiari, anche per lunghi periodi, partecipando esse stesse in prima persona, resistendo alle pressioni”. Nadia Gallico Spano (ndr, tra le 21 donne elette nella Costituente, poi deputata del PCI) ricorda le lotte delle donne, operaie e contadine uccise nel rivendicare i propri diritti o per difendere quelli dei propri uomini. “Le donne sfidavano le violenze poliziesche, venivano persino arrestate e accettavano coraggiosamente anche lunghi periodi di sciopero, come quello di 72 giorni, in cui non ricevettero nessun salario e una popolazione di circa 52 mila persone, fu ridotta allo stremo”. Al convegno nazionale dell’UDI di Firenze del novembre 1948 la Spano comunicò della dura lotta in difesa delle miniere e della drammatica condizione delle famiglie di Carbonia prive di mezzi, ponendo l’accento sulla condizione femminile, che commosse le donne italiane. Grande combattente, Nadia Gallico Spano era amata e apprezzata nell’ambiente e a Carbonia in particolare, perché voleva donne indipendenti, coscienti della propria condizione e capaci di autogestirsi.                                                                                                                                                                   

 Roberto Carta, autore del documentario, che attualmente vive a Bologna, ma è affezionato alla sua terra, dove torna ogni volta che può, ci ha rivelato che l’idea di raccogliere le testimonianze femminili, gli è maturata a seguito dei racconti ascoltati da piccolo: i suoi nonni avevano lavorato in miniera e una sua zia, Albina, era morta a seguito di un incidente in miniera. Diversi erano stati gli uomini che avevano subito incidenti gravi in cui avevano perso gli arti o erano morti, ma lei è stata l’unica donna a perdere la vita: il suo vestito era rimasto impigliato in un rullo che l’aveva risucchiata. Non è stato facile realizzare il progetto, – ci ha raccontato – soprattutto per carenze di budget: da quando lo ha ideato a quando lo ha concluso, ambientandolo nei luoghi e nelle miniere in cui hanno lavorato le donne, sono passati due anni. Per la sua rilevanza sociale, ha ottenuto il contributo della Regione Sardegna.                                                                                                                                                                                      

Ancora il regista: “Come testimoniano nel documentario, le donne rimpiangono ancora il lavoro in miniera: erano contente di farlo, socializzavano, cantavano, e soprattutto, erano autonome, non erano costrette a stare a casa, come invece accadeva una volta sposate. Con il lavoro in miniera, avevano raggiunto la loro indipendenza, smarcandosi dal predominio maschile. Non lavoravano in condizioni facili, venivano pagate pochissimo, ma il loro sacrificio è servito ad aprire la strada alle altre donne”. Un documentario da vedere e diffondere: tra il pubblico, i giovani, nelle scuole, per comprendere quali sacrifici siano state capaci di fare le donne coraggiose che ci hanno preceduto per consentirci quelle conquiste che oggi troppo spesso si danno per scontate e di cui nella maggior parte dei casi non si conoscono le origini. Un percorso di emancipazione pagato a caro prezzo, per consentirci la libertà di scegliere.

Breve biografia di Roberto Carta                                                                                                                                                                                   

Roberto Carta, nato nel 1976 a Carbonia (SU), si è laureato al Dams di Bologna, indirizzo cinema. Dal 2004 al 2008 è stato aiuto regista nei lungometraggi, “Il vento fa il suo giro” e “L’uomo che verrà”, entrambi diretti da Giorgio Diritti (ndr, regista di: Volevo nascondermi, sulla vita di Ligabue, magistralmente interpretato da Elio Germano). È stato redattore per la trasmissione televisiva di Carlo Lucarelli (10 puntate) “Milonga Station”, in onda su Rai Tre.                                                                                              

Nel 2014 ha sceneggiato e diretto “Sinuaria”, cortometraggio ambientato nell’isola dell’Asinara, selezionato in numerosi festival cinematografici, e vincitore di 18 premi, tra cui la nomination ai David di Donatello 2015. Nel 2017 il regista ha diretto e montato: il corto – documentario, “Custodi del proprio territorio”, prodotto dall’ISMEA e il videoclip “Michimaus”, della cantante e attrice Angela Baraldi. Nel 2020 ha realizzato il cortometraggio “Lasciami andare” (ndr, sul banditismo sardo), ambientato nella Sardegna barbaricina, prodotto col sostegno della Regione Sardegna.                                                                                                                                                  

 “Donne di miniera” (2023), è il suo primo documentario: prodotto da Mario Pezzi, ha una durata di 55 minuti. Le musiche sono di Stefano Tore su tema di Maria Teresa Cau, montaggio di Erika Manoni.

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