Mettiti in comunicazione con noi

Attualità

Viaggio–inchiesta nella sanità italiana ai tempi del coronavirus

Pubblicato

-

In tutta Italia è in corso l’emergenza da coronavirus, una pandemia che ci ha trovati impreparati a partire dal campo sanitario, laddove le risposte per curare chi ne fosse stato colpito, avrebbero dovuto essere immediate e con le attrezzature adeguate. Così purtroppo non è stato e per molteplici motivi, il primo dei quali è consistito nell’aver sottovalutato la virulenza del Covid-19. Al Nord, il virus ha colpito prima e di più, anche a causa di una mentalità, soprattutto in alcune zone, protesa alla produzione a tutti i costi, all’avidità di guadagno, com’è stato nel caso di Bergamo, dove la strage era dunque annunciata. Ce ne siamo occupati in queste pagine a più riprese. Intendiamo ascoltare la voce di coloro che in varie parti d’Italia, dal Nord al Sud, sono in prima linea nel combattere il Covid-19 o quantomeno, abbiano le competenze per poterne parlare. Ci serve a capire dove e come funzioni la nostra sanità, e di cosa abbisogna per diventare più efficiente.

Limitare la sanità pubblica sul territorio è fallimentare: troppi errori compiuti

dottor Carlo Venzano

Parla Carlo Venzano, già primario di Ematologia, Oncologia e Medicina interna presso l’Ospedale Padre Antero di Genova

Com’è la situazione emergenza coronavirus a Genova?L’attività è concentrata tra l’Ospedale San Martino, il Galliera, e Villa Scassi a Sampierdarena. I letti della rianimazione, stando alle statistiche, sono occupati al 97-98%. La diffusione della malattia non è così alta come in Lombardia, ma anche qui abbiamo il problema dei casi non conclamati: sono coloro che muoiono in casa o in residenze per anziani e non vengono diagnosticati, per la difficoltà di fare una diagnosi a tutti. Ci sono situazioni in cui la malattia si è diffusa con percentuali alte e molto facilmente, come nelle RSA (residenze per anziani), poiché gli anziani sono più fragili, spesso già compromessi con la salute e quando si ammalano non vengono inviati tutti negli ospedali. A questo, si aggiunga il problema degli operatori sanitari che operano nelle residenze per anziani: solo oggi sono stati forniti dei dispostivi di protezione per il personale sanitario, dopo quasi due mesi dall’esordio della pandemia. La Liguria e Genova in particolare, ha molti anziani e così i casi di decesso sono stati tanti. Anche medici e operatori sanitari stanno ammalandosi: di recente un mio amico, ex primario del Sampierdarena, è andato a visitare una persona, e dopo essersi infettato, purtroppo è deceduto. La riduzione complessiva dei posti letto ospedalieri e del personale medico e paramedico nella Regione, unita all’assoluta impreparazione di fronte all’emergenza, che almeno in parte era stata preannunciata, hanno fatto il resto. In ogni modo, anche se medici e operatori sanitari sono stressati, stanno reggendo, ce la fanno. In caso di necessità il mio suggerimento è di ricorrere all’assunzione di giovani medici e paramedici.

L’emergenza non è stata dunque affrontata col giusto tempismo?

L’emergenza era stata preannunciata, ma ci si è fatti trovare impreparati: Nel settembre del 2019 e persino prima,- basta andare su Internet per trovarlo – l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) pubblicava un documento in cui metteva nero su bianco, una serie di raccomandazioni di minima rivolte soprattutto agli Stati con sistemi sanitari poco efficienti, nei confronti di una possibile pandemia virale con compromissione respiratoria. Faceva riferimento agli studi sulle epidemie dell’Ebola, della Sars, della Mers, etc.. Nessuno Stato però ha fatto nulla. All’inizio, il problema è stato sottovalutato. Non sappiamo se la Cina abbia fornito le giuste informazioni, se abbia ritardato a darle complete: può darsi, le versioni sono controverse. Fatto sta, che in Cina, i medici che avevano segnalato i casi, all’inizio erano stati messi a tacere, redarguiti e messi sotto consiglio di disciplina. Da quando si è saputo del virus, ai primi di gennaio, si sarebbe almeno dovuta attivare una sorta di allerta negli ospedali, tra i medici di famiglia, nelle case di riposo. Bisognava immediatamente fare la ricerca dei dispositivi di protezione personale: si sapeva che mancavano camici e mascherine. Si sarebbero dovuti istituire negli ospedali e nei Pronto soccorso, percorsi separati per persone sospette e ripristinare norme igieniche fondamentali, conosciute ma non sempre seguite alla lettera, come quella di lavarsi ripetutamente e bene, le mani. Di tutto ciò, da inizio gennaio a fine febbraio nulla è stato fatto. L’unica cosa, fatta il 31 gennaio, è stato il blocco dei voli diretti dalla Cina. Anche la comunicazione è stata confusa e contraddittoria. I cosiddetti esperti e gli scienziati, all’inizio avevano opinioni diverse. I media, social compresi, hanno fatto parlare troppe persone, che si sono messe in mostra, talvolta sminuendo la portata del problema e relegandolo a una semplice influenza. Alla componente medico-scientifica, non si può attribuire pieni poteri sulle decisioni del modo di vivere di una comunità, altrimenti si rischia che diventi una tecnocrazia. La comunità va coinvolta, serve un dibattito pubblico prima di prendere le decisioni importanti: non si può delegare alle interminabili liti tra maggioranza e opposizione.

Fontana, governatore della Lombardia, ha detto che alla carenza delle mascherine si può sopperire usando le sciarpe!

È una bufala enorme! Qualcuno glielo ha detto e sottoscritto? Se è sufficiente una sciarpa, è inutile che facciamo tutte queste storie per cercare le mascherine (ride): la sciarpa ce l’abbiamo tutti!

Come sopperire ai dispositivi che scarseggiano?

È importante averli soprattutto nei luoghi di lavoro, negli uffici in cui si è a contatto col pubblico, nei presidi sanitari, nelle case di riposo. Per strada credo che basti il distanziamento sociale. Certo, anche l’OMS ha le sue responsabilità sulla questione dei dispositivi: è stata altalenante, inizialmente sembrava non servissero le mascherine, se non ai malati e ai sintomatici, ora ritiene che servono per tutti. Persino il medico che ha scoperto il primo caso a Codogno, per eseguire il test, lo ha fatto esulando dalle strette indicazioni dettate dall’OMS.

Oggi si fanno gli esami del sangue per vedere se ci siano gli anticorpi…

I test sierologici sono esami nati troppo rapidamente: ho qualche riserva, come ce l’ha l’Aifa (organismo disciplinare per l’approvazione del farmaco e tecnologie sanitarie), che non li ha ancora validati. È solo un mese e mezzo, non c’ è stato il tempo di verificare secondo i suoi parametri di specificità, sensibilità e riproducibilità. C’è chi comincia a guadagnarci: qui ci sono laboratori privati che li eseguono a 100 € l’uno. Vengono esaminati gli anticorpi, cioè le immunoglobuline, le proteine che l’organismo produce nei confronti del virus e di qualsiasi sostanza estranea. Si iniziano a produrre dopo 10-14 giorni dal contatto: se vengono rilevate, vuol dire che c’è stato un contatto, ma non rivela se il virus sia stato espulso o se sia ancora presente nel corpo. Se hai gli anticorpi sei protetto, probabilmente almeno per un po’ di tempo, non te lo prendi più. Va in ogni caso validato con sistemi comparabili.

E il tampone?

Il tampone serve per verificare se si è portatori del virus: il limite consiste nel fatto che lo fai oggi, e magari stai bene, ma non sai come starai tra una settimana. Bisogna farne a tappeto e individuare i contatti dei portatori, come hanno fatto in Corea. In questo modo sono riusciti a contenere il contagio. È importante fare i tamponi agli operatori sanitari per individuare se siano portatori o con possibilità di infettare gli altri o se siano sani e in tal caso potrebbero infettarsi.

Il modello lombardo ha fallito: la sanità dev’essere gestita dalle regioni o dallo Stato?

La sanità dev’essere pubblica e accentrata a livello nazionale. L’esempio della Lombardia, modello della sanità pubblica e privata, ha privilegiato la sanità ospedalo-centrica, con le eccellenze, certo, ma ha limitato la sanità sul territorio. È venuta meno l’attenzione alle malattie infettive, che significa avere una rete epidemiologica che rilevi i campanelli d’allarme in ogni paese, come si faceva un tempo. Quando non c’erano gli antibiotici, fino al secondo dopoguerra, la lotta alle malattie infettive avveniva solo con la prevenzione e l’igiene. Con l’avvento degli antibiotici, le norme dell’igiene pubblica sono diminuite. Il Veneto ha una tradizione di sanità un po’ più territoriale, tanto che è riuscito a gestire l’emergenza arginando un po’ meglio la diffusione del virus.

Cos’ha di nuovo questo virus?

Non è un evento nuovo, si pensi al morbillo, che si è trasmesso dagli animali all’uomo. La trasmissione del virus è cominciata da quando l’uomo ha cominciato ad allevare le mucche. Non è cambiato il passaggio del virus da animale a uomo, ma è lo scenario umano che è cambiato con la globalizzazione: ci si sposta da una parte all’altra e spostandosi, si diffonde anche il virus.

In che tempi immagina che usciremo da questa pandemia?

È difficile dirlo: genericamente quando una buona quantità di popolazione è venuta a contatto del virus e non potrà più prenderlo, si sarà creata un’immunità di gregge. Bisognerà però fare dei test degli anticorpi, validati su un campione significativo di popolazione. Bisognerà aspettare di superare almeno due volte il tempo di incubazione, se è di 20 giorni, bisognerà attenderne dunque 40. Ricordiamoci però, com’è già accaduto con la Spagnola, che mentre sembrava debellata, l’anno successivo aveva avuto una ripresa peggiore: questo va tenuto presente. In questo scenario, decisioni sul da farsi, come lavorare o meno, devono essere prese attraverso un dibattito pubblico, non possono essere prese solo dal Governo, le scelte da fare e le responsabilità, afferiscono all’intera collettività.

Attualità

Curarsi nel Mezzogiorno costa caro

Pubblicato

-

La salute costa cara in Italia, si resta impigliati nella rete del basso reddito che, nel Meridione è quasi la metà rispetto a quello del Nord, e delle lunghe liste di attesa, fattori che, limitano o impediscono laprevenzione e la cura delle patologie anche legateall’età. Pur essendo cresciuto, negli ultimi anni, il PIL del Sud (1,5%) rispetto a quello del Nord (0,4%), le differenze restano evidenti, il PIL medio per abitante è così ripartito: Nord Est 44.900 euro; Meridione 23.900 euro; media fissata a 36.100 euro.Non può essere negato il legame tra il reddito alto e le buone condizioni di salute. L’indagine condotta dal giornale l’Avvenire conferma l’ipotesi, tant’è che i possessori di un reddito tra i 50 ed i 70 mila eurospendono 300 euro al mese per le assicurazioni sanitarie e visite specialistiche private ottenendoadeguate risposte ai bisogni personali, mentre nel Meridione tale somma è destinata alle necessitàquotidiane e non per curare le patologie. Il SSN pur essendo universale, relega una fetta sempre maggiore della popolazione nella zona grigia della mancata assistenza sanitaria. La conseguenza è l’aggravarsi delle condizioni di salute che si riflettono sul SSR costretto ad erogare prestazioni ad elevata intensità collegate alla probabile emissione della pensione di invalidità a carico dell’INPS. L’Italia è sempre più divisa, le aspettative di vita sono collegate al luogo di residenza, nel meridionesi muore tre o quattro anni prima rispetto al Nord in conseguenza dei servizi sanitari insufficienti e delle lunghe liste di attesa. Il welfare è ridotto al minimo,con la spesa pro-capite che, secondo l’Istat, è così ripartita: Mezzogiorno 78 euro, Centro 165 euro,Nord-Ovest 162 euro, Nord- Est di 207 euro.Nemmeno i bambini del Sud si salvano, i posti negli asili nido ogni 100 bambini sono 17 mentre nel Centro-Nord, in media, sono circa 37. Non cambia la musica con i servizi delle RSA offerti agli anziani:su 10 mila abitanti nel Sud i posti letto sono 37, la media nazionale è di 69, mentre in Campania è di 20posti letto.

Il piatto è servito, da 164 il Paese è diviso e sperequato, né si intravede la volontà politica di ridurre i divari territoriali.

da: Qf QuiFinanza

Al Sud si vive 3 anni in meno che al Nord, Italia sempre più divisa

Dall’aspettativa di vita al Pil, passando per reddito e servizi: il nuovo rapporto Istat evidenzia le profonde disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud Italia

Giorgio Pirani

GIORNALISTA ECONOMICO-CULTURALE

Pubblicato: 28 Maggio 2025 12:33

Condividi

ANSANord più ricco e con più servizi, il Sud no: tutte le differenze

L’Istat traccia una mappa dell’Italia che è frammentata, con forti differenze tra Nord e Sud. Un esempio, sulla speranza di vita, che a Trento è pari a 84,7 anni mentre in Campania è di 81,7, esattamente di tre anni. Questo e altri dati sono stati presentati dall’Istituto all’evento sullo stato di attuazione e sulle prospettive del federalismo fiscale.

Secondo i dati illustrati dall’Istituto, tra il 2004 e il 2024 l’aspettativa di vita alla nascita è passata da 80,7 a 83,4 anni, con un aumento più marcato per gli uomini (da 77,9 a 81,4 anni) rispetto alle donne (da 83,6 a 85,5 anni).

Come cambiano le aspettative di vita

Le province autonome di Trento e Bolzano si confermano le aree con la maggiore longevità, con una speranza di vita rispettivamente di 84,7 e 84,6 anni. All’estremo opposto, Campania e Sicilia restano in coda con valori di 81,7 e 82,1 anni. Un’intera vita condotta a Trento e a Napoli, dunque, ha statisticamente un impatto ben differente su una persona.

Il quadro degli ultimi vent’anni evidenzia un netto svantaggio per il Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, con una tendenza all’ampliamento dei divari.

Particolarmente significativi alcuni casi:

• la Calabria nel 2004 era in linea con la media nazionale, ma nel 2024 registra uno svantaggio di 1,1 anni;

• in Sicilia invece il divario è passato da -0,6 anni nel 2004 a -1,3 anni nel 2024 rispetto alla media nazionale.

Differenze anche per il welfare

Infine, l’Istat segnala che anche la spesa per il welfare territoriale riflette queste disparità. La spesa pro-capite nelle diverse aree del Paese è così distribuita:

• Mezzogiorno: 78 euro

• Isole: 144 euro

• Centro: 165 euro

• Nord-Ovest: 162 euro

• Nord-Est: 207 euro

Pil in crescita, ma il divario Nord-Sud resta marcato

Non solo l’età, a marcare un solco tra Nord e Sud è soprattutto la crescita delle due macro aree. Nel 2023 il Pil nazionale in volume è cresciuto dello 0,7% rispetto all’anno precedente, un dato in linea con la media italiana nel Nord-ovest, dove l’aumento è stato appunto dello 0,7%. La crescita è risultata più sostenuta nel Mezzogiorno (+1,5%), mentre è stata più contenuta al Centro (+0,3%) e nel Nord-est (+0,4%).

Il Pil medio per abitante nel Nord-ovest è pari a 44.700 euro, quasi il doppio rispetto al Mezzogiorno (23.900 euro) e ben 8.600 euro in più della media nazionale, fissata a 36.100 euro.

Nel resto del Paese:

• nel Nord-est il dato si attesta a 42.500 euro;

• nel Centro è pari a 38.600 euro;

• a livello regionale, il valore più alto si registra nella provincia autonoma di Bolzano con 59.800 euro;

• il minimo è in Calabria, ferma a 21.000 euro.

Disparità nel reddito famigliare

Anche il reddito disponibile delle famiglie mostra forti disomogeneità. Nel 2023, la media nazionale è stata di 22.400 euro per abitante. A livello territoriale nel Nord-ovest si è raggiunta quota 26.300 euro, mentre nel Mezzogiorno ci si è fermati ad una soglia ben più bassa, pari a 17.100 euro.

L’intervento redistributivo dello Stato ha determinato un incremento del reddito disponibile medio nazionale pari al 7,8% nel 2023, corrispondente a +1.734 euro per abitante. Tuttavia, l’effetto redistributivo varia sensibilmente tra le aree:

• nel Mezzogiorno l’incremento incide per il 17,5% sul totale del reddito disponibile;

• nel Nord-ovest è del 2,3%;

• più alto nel Nord-est, pari a 4,7%;

• infine il Centro con 7,1%

Male anche nei servizi per bambini e anziani

Il divario tra territori si riflette anche nell’accesso ai servizi. Per quanto riguarda i posti disponibili negli asili nido ogni 100 bambini:

• nel Sud Italia sono poco più di 17;

• al Centro 38,8;

• nel Nord-est 37,5;

• il Nord-ovest 35.

Nei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, i posti letto ogni 10mila abitanti sono 37 nel Mezzogiorno, contro una media nazionale di 69,1. Il livello più basso si registra in Campania con 20,2, mentre quello più alo è della Provincia autonoma di Trento con 151,1.

Istat

Continua a leggere

Attualità

Occhi di aquila, mani di vento: le donne di miniera in Sardegna

Pubblicato

-

Roberto Carta, regista sardo, ha raccolto le testimonianze delle coraggiose donne che hanno lavorato in miniera: storie di progresso e di conquiste. Il documentario, nella rosa finalista dell’AIFF

“Nel 1938 lo sviluppo intensivo delle miniere carbonifere darà al fascismo il combustile per la guerra. Carbonia, capitale dell’oro nero nazionale, comincerà ad attrarre i disoccupati delle campagne”. Esordisce così il lungometraggio di Roberto Carta, dedicato al lavoro delle donne sarde nelle miniere, nella rosa dei finalisti alla tredicesima edizione dell’Ariano International Film Festival. Molte le crude testimonianze di donne che hanno lavorato in miniera o che raccontano indirettamente la vita delle loro madri o parenti strette. Anna Simbula, riferisce della madre, Delfina Dessì, nata a Santadi nel 1921 e morta appena prima di compiere cento anni. Delfina aveva lavorato nella miniera carbonifera di Carbonia, facendo la cernita senza mai fermarsi: non poteva, poiché con le altre formava una catena di montaggio. Viaggiava di notte sia all’andata che al ritorno, insieme ad altre cernitrici: tutte avevano paura, poiché c’erano i cacciatori e persino un bandito, del cui fucile vedevano il luccichio, nel tratto di strada che percorrevano. Così lo attraversavano di corsa, nel timore che potesse sparare anche a loro. Delfina, dormiva, come le sue colleghe, soltanto un paio d’ore, ma era una donna forte, che “non si piegava”. Una donna instancabile che, ricorda con orgoglio la figlia, dopo aver lavorato in miniera, continuava a farlo anche a casa. Era entrata a lavorare giovanissima, nel 1937 e ci era rimasta fino al 1951. È stata tra coloro che oltre al nome, hanno lasciato sui muri delle cave, anche l’impronta delle mani.                                                                                                                                                                      

Alla fine degli anni Trenta, nelle miniere del Sulcis erano occupate 254 donne, impiegate nei lavori di cernita o nelle laverie di Serbariu e Bacu Abis, altre lavoravano nei servizi, negli alberghi operai e nelle lavanderie. Doloretta Ledda racconta di aver lavorato prima in laveria, poi alla “noia”, un nastro adibito a trasportare i vagoni al piano superiore. Lavorava l’intera settimana in turni quotidiani dalle 8 alle 17, con un‘ora di stacco per il pranzo: aveva scelto di lavorare anche di domenica, dalle 7 alle 14. Genoveffa Valdarchi, aveva 28 anni e nonostante fosse madre di tre bambini, uno dei quali da allattare, copriva ben tre turni, come tutti gli altri operai. Il primo turno iniziava alle 7 di mattina con uscita alle 15; il secondo turno partiva alle 15 da Sirai, un quartiere di Carbonia un po’ distante, che raggiungeva a piedi, e terminava alle 22. L’ultimo turno era dalle 22 alle 7, ma per consentirle l’allattamento, le concedevano di uscire 2 ore prima. Ricorda delle sue paure di notte, quando da sola doveva percorrere le strade e si avvicinava a dei minatori, anche se sconosciuti, per superare lo sconforto. Faustina Piras racconta della possibilità di scegliere di rimanere più tempo in miniera poiché c’era molto lavoro. Lei in un mese, avendo lavorato “36 giornate”, aveva percepito 180 lire di stipendio, non certo una grande cifra, ma quanto le aveva consentito di iniziare ad acquistare il corredo che le serviva per sposarsi. Lavorare le piaceva, anche se non era un gioco: bisognava evitare di distrarsi a parlare ed escludere rapidamente le pietre dai nastri, altrimenti le avrebbero dovute togliere le ultime lavoranti, perché non scendessero con la parte buona del carbone. Iride Peis, insegnante elementare di Guspini (Sulcis-Iglesiente), si è appassionata alla storia mineraria del territorio fin da bambina, quando il nonno, fonditore, le parlava del suo lavoro nelle miniere di Montevecchio. Avendo sposato il medico della miniera, è stata ulteriormente facilitata nella conoscenza della materia, che a sua volta trasmette agli alunni. Nel 1855, l’ingegner Nicolay, direttore della miniera di Monteponi, racconta Iride, aveva visto le donne lavorare nei cortili delle case pulendo grano, fave e ceci e così, gli era venuta l’idea di portarle a lavorare in miniera a separare il minerale utile da quello sterile: “saranno più brave perché sono più attente e più svelte. Queste donne hanno occhi di aquila e mani di vento. Inoltre costeranno la metà degli uomini”. I cernitori (uomini) c’erano già, ma erano “il pidocchio in mezzo alla farina”, non sapevano muoversi bene, rispetto alle donne, – precisa Iride. “Sul salario, continua Iride, – si evidenzia la prima discriminazione, finché nel 1940 le cernitrici saranno sostituite dalle macchine. Le donne però cominceranno a farsi valere formando gruppi e associazioni, appoggiando proteste e scioperi dei loro familiari, anche per lunghi periodi, partecipando esse stesse in prima persona, resistendo alle pressioni”. Nadia Gallico Spano (ndr, tra le 21 donne elette nella Costituente, poi deputata del PCI) ricorda le lotte delle donne, operaie e contadine uccise nel rivendicare i propri diritti o per difendere quelli dei propri uomini. “Le donne sfidavano le violenze poliziesche, venivano persino arrestate e accettavano coraggiosamente anche lunghi periodi di sciopero, come quello di 72 giorni, in cui non ricevettero nessun salario e una popolazione di circa 52 mila persone, fu ridotta allo stremo”. Al convegno nazionale dell’UDI di Firenze del novembre 1948 la Spano comunicò della dura lotta in difesa delle miniere e della drammatica condizione delle famiglie di Carbonia prive di mezzi, ponendo l’accento sulla condizione femminile, che commosse le donne italiane. Grande combattente, Nadia Gallico Spano era amata e apprezzata nell’ambiente e a Carbonia in particolare, perché voleva donne indipendenti, coscienti della propria condizione e capaci di autogestirsi.                                                                                                                                                                   

 Roberto Carta, autore del documentario, che attualmente vive a Bologna, ma è affezionato alla sua terra, dove torna ogni volta che può, ci ha rivelato che l’idea di raccogliere le testimonianze femminili, gli è maturata a seguito dei racconti ascoltati da piccolo: i suoi nonni avevano lavorato in miniera e una sua zia, Albina, era morta a seguito di un incidente in miniera. Diversi erano stati gli uomini che avevano subito incidenti gravi in cui avevano perso gli arti o erano morti, ma lei è stata l’unica donna a perdere la vita: il suo vestito era rimasto impigliato in un rullo che l’aveva risucchiata. Non è stato facile realizzare il progetto, – ci ha raccontato – soprattutto per carenze di budget: da quando lo ha ideato a quando lo ha concluso, ambientandolo nei luoghi e nelle miniere in cui hanno lavorato le donne, sono passati due anni. Per la sua rilevanza sociale, ha ottenuto il contributo della Regione Sardegna.                                                                                                                                                                                      

Ancora il regista: “Come testimoniano nel documentario, le donne rimpiangono ancora il lavoro in miniera: erano contente di farlo, socializzavano, cantavano, e soprattutto, erano autonome, non erano costrette a stare a casa, come invece accadeva una volta sposate. Con il lavoro in miniera, avevano raggiunto la loro indipendenza, smarcandosi dal predominio maschile. Non lavoravano in condizioni facili, venivano pagate pochissimo, ma il loro sacrificio è servito ad aprire la strada alle altre donne”. Un documentario da vedere e diffondere: tra il pubblico, i giovani, nelle scuole, per comprendere quali sacrifici siano state capaci di fare le donne coraggiose che ci hanno preceduto per consentirci quelle conquiste che oggi troppo spesso si danno per scontate e di cui nella maggior parte dei casi non si conoscono le origini. Un percorso di emancipazione pagato a caro prezzo, per consentirci la libertà di scegliere.

Breve biografia di Roberto Carta                                                                                                                                                                                   

Roberto Carta, nato nel 1976 a Carbonia (SU), si è laureato al Dams di Bologna, indirizzo cinema. Dal 2004 al 2008 è stato aiuto regista nei lungometraggi, “Il vento fa il suo giro” e “L’uomo che verrà”, entrambi diretti da Giorgio Diritti (ndr, regista di: Volevo nascondermi, sulla vita di Ligabue, magistralmente interpretato da Elio Germano). È stato redattore per la trasmissione televisiva di Carlo Lucarelli (10 puntate) “Milonga Station”, in onda su Rai Tre.                                                                                              

Nel 2014 ha sceneggiato e diretto “Sinuaria”, cortometraggio ambientato nell’isola dell’Asinara, selezionato in numerosi festival cinematografici, e vincitore di 18 premi, tra cui la nomination ai David di Donatello 2015. Nel 2017 il regista ha diretto e montato: il corto – documentario, “Custodi del proprio territorio”, prodotto dall’ISMEA e il videoclip “Michimaus”, della cantante e attrice Angela Baraldi. Nel 2020 ha realizzato il cortometraggio “Lasciami andare” (ndr, sul banditismo sardo), ambientato nella Sardegna barbaricina, prodotto col sostegno della Regione Sardegna.                                                                                                                                                  

 “Donne di miniera” (2023), è il suo primo documentario: prodotto da Mario Pezzi, ha una durata di 55 minuti. Le musiche sono di Stefano Tore su tema di Maria Teresa Cau, montaggio di Erika Manoni.

Continua a leggere

Attualità

Confesercenti: Istat conferma stagnazione spesa famiglie irpine e flessione negozi vicinato

Pubblicato

-

“I dati ufficiali confermano un calo dei consumi e delle vendite al dettaglio in Irpinia, come nel resto del Paese”. Ad affermarlo è Giuseppe Marinelli, presidente provinciale di Confesercenti Avellino.

“Dal rapporto dell’Istat – prosegue il dirigente dell’associazione di categoria – emerge che a luglio i volumi complessivi sono scesi dello 0,3% rispetto al mese precedente. La contrazione è stata più pronunciata per il comparto alimentare (-0,9%), dove la dinamica inflazionistica (+3,5%) continua a comprimere i bilanci delle famiglie. In flessione anche i beni non alimentari (-0,1%), nonostante il periodo dei saldi: l’abbigliamento registra un modesto +1,9% in valore nel confronto annuo, mentre le calzature arretrano ancora (-0,1%).

Il quadro complessivo, dunque, conferma una stagnazione della spesa delle famiglie residenti che si protrae da oltre due anni, senza segnali di ripresa. La flessione delle vendite al dettaglio potrebbe anticipare un rallentamento anche del Pil nel terzo trimestre, con il rischio di una recessione tecnica per l’economia italiana.

Per tipologia di esercizio, la contrazione appare più pesante per le piccole superfici di vicinato, penalizzate da consumi in frenata e costi in aumento, mentre la grande distribuzione trattiene clienti con promozioni sempre più aggressive, erodendo spazi al commercio indipendente. Secondo le nostre stime, nei primi sette mesi dell’anno le piccole superfici hanno registrato una contrazione dello 0,9% in volume, mentre la grande distribuzione ha messo a segno un aumento dello 0,6%. L’unico segmento in forte espansione rimane quello dei discount alimentari e delle grandi strutture a prevalenza food”.

“In una fase in cui anche la domanda estera rallenta – conclude Marinelli –  rilanciare i consumi interni deve diventare la priorità delle politiche economiche, con misure di sostegno al reddito delle famiglie e agevolazioni, anche sul piano locale, alle imprese”.

Continua a leggere
Advertisement

Più letti