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Emigrato da Villanova a Berlino, vi racconto come si vive nell’ex Germania Est

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Originario di Villanova del Battista (AV), Gian Luigi Panzetta, architetto in pensione, da 25 anni vive a Berlino, dove gestisce Locanda, ristorante ispirato alla cucina irpino-napoletana, che talvolta rivisita. Gli abbiamo chiesto com’è stata vissuta lì, l’emergenza.

Cosa l’ha portata fino in Germania?

Da 15 anni io e la mia compagna Iris Luttgert, lasciata la nostra professione di architetti, gestiamo un piccolo ristorante nel centro di Berlino. Arrivai qui all’inizio degli Anni 90, per stabilirmici definitivamente nel 1996. Fu a seguito di “Mani pulite” che, oltre a bloccare le costruzioni per le note vicende legate alle tangenti, immobilizzò il settore edilizio anche nell’ordinarietà. Si bloccarono i pagamenti, perché i funzionari amministrativi addetti a pagare gli stati di avanzamento a imprese e professionisti, non lo facevano più per timore di essere indagati dalla magistratura. Questa situazione, che congelò per parecchi anni il settore delle costruzioni, mi costrinse a chiudere i tre studi professionali che avevo con altri colleghi a Napoli, Isernia e Palmi e, come tante aziende italiane, tentai di trasferirmi in Germania con l’aiuto della mia compagna. L’attività andò bene fino al 1997-98, quando gli incentivi dello Stato tedesco a privati che investivano nella ricostruzione, facendo alloggi popolari di cui la città aveva estremo bisogno, vennero meno. La necessità di completare il programma prefissato per Berlino Capitale, coinvolse gran parte delle nostre imprese edilizie che, incapaci di lavorare secondo i capitolati tedeschi o a volte, vittime di vere e proprie trappole da parte dei committenti, in molte, fallirono. Raccontai questa esperienza in un libro, “Il mercato globale e l’emigrazione imprenditoriale edilizia degli anni 90” in “SPUREN”, AA. VV. (Berlin 1999), e dopo lo scandalo sollevato dal Mattino di Napoli del 28 marzo 1998, in cui si chiedeva l’intervento del nostro ministro degli Esteri, fui oggetto di numerose interviste.

Com’è stata percepita a Berlino la pandemia da coronavirus?

Per comprendere come si siano potute adottare misure restrittive per combattere il coronavirus, in una città la cui composizione demografica è di notevole varietà sociale, etnica e antropologica, serve una premessa. Se “Parigi è la Francia”, Berlino non è la sintesi della nazione che rappresenta. La Germania è uno Stato federale in cui i suoi 16 Länder (Regioni) hanno competenza su sanità, polizia, scuola e altro. Berlino, dall’ultima guerra, fino alla caduta del Muro (1990) è stata divisa in due: la parte Est, capitale della DDR con regime comunista e la parte Ovest, sotto la giurisdizione degli Alleati della II Guerra Mondiale. La parte Ovest era divisa nei settori: americano, francese e inglese. Queste circostanze hanno pesato enormemente sul carattere identitario della città e dei suoi abitanti. Il Presidente americano J. F. Kennedy, che la visitò nel 1960, nel suo famoso discorso in cui dichiarò: “Ich bin ein Berliner” (io sono un berlinese), colse pienamente il senso di integrazione e di accettazione che la città aveva sempre offerto. Fin dal Settecento, Federico II il Grande, rese possibile l’integrazione a Berlino, di 30.000 Ugonotti perseguitati in Francia. Il suo passato fu prima prussiano, poi luterano e infine, cosmopolita città industriale e centro di cultura mondiale, fino al tragico passaggio dalla Repubblica di Weimar, alla presa del potere del nazismo. Movimento, si badi bene, che non crebbe a Berlino (seppur ben visto dalla borghesia industriale), ma a Monaco: città provinciale, cattolica e conservatrice. A Berlino, il nazismo arrivò per necessità: Hitler non la amava. A Monaco, dopo la guerra, nacque la CSU, il partito conservatore della Democrazia Cristiana della Baviera, fratello del CDU nazionale, oggi rappresentato dalla Merkel che, data per spacciata e motivata a lasciare la politica, sta invece guadagnando molto consenso, per come sta gestendo l’emergenza. Entrambi i partiti, hanno governato sempre insieme e rappresentano la destra storica che, a differenza della destra italiana, sul piano dei diritti civili, è molto più liberal e tollerante. Ci sono poi gli estremisti del gruppo neonazista AfD, nati dopo la caduta del Muro, così come la sinistra estrema, rappresentata dai Link. Infine, i Verdi, sempre in forte ascesa nei consensi e la SPD, il partito socialdemocratico, da anni in forte calo. Berlino, all’opposto di Monaco, grazie al fatto di essere stata nel passato un grande centro industriale, con la presenza di un grosso movimento operaio, ha avuto sempre un carattere aperto e multiculturale. Oggi ha 3,8 milioni di abitanti e conserva il suo stato giuridico di città-regione, che vive di servizi e turismo, dopo il trasferimento di tutte le grandi aziende fin dagli Anni 60, a causa del suo forzato isolamento. Tra le grandi città tedesche, è una delle più povere, col più alto tasso di disoccupazione. Si consideri che dalla caduta del Muro, 2,9 milioni di persone sono arrivate e 2,7 milioni hanno lasciato la città. Dei nuovi arrivati, il 57% proviene dalla Germania e il restante 43% da Paesi stranieri. Date queste premesse, le scelte per contenere il coronavirus, dovevano tener conto del federalismo statale che richiede, come da Costituzione, l’accordo preventivo di tutti i Länder. Viste dall’Italia, potrebbero sembrare scelte fatte con molto ritardo, rispetto al nostro veloce procedere per “decreto”, come prevede la nostra Costituzione. Molti di questi Länder, come d’altra parte anche in Italia (le diverse posizioni tra Lombardia, Piemonte e Veneto e le regioni del Sud) per trovare un accordo, hanno dovuto conciliare esigenze diverse (le forti aree industriali della Baviera e del Nord-Reno/Vestfalia contrari alle restrizioni e le altre con meno presenza di fabbriche, meno ostili). In ogni modo, nella prima fase si è deciso che si poteva uscire liberamente, indossando la mascherina, anche se al massimo in compagnia di un’altra persona (indipendentemente dalla parentela). Essendo chiusi i negozi e mancando la massa di turisti, circolavano poche persone. Per molti è stata l’occasione per lunghe passeggiate, a piedi o in bicicletta, negli immensi e numerosi parchi della città. In questa fase, si poteva notare come i treni e i bus viaggiassero vuoti. I bus hanno la cabina del conducente riparata da una paretina di plastica per impedire l’accesso (tuttora) dalla porta anteriore. Nel complesso, qui non si è vissuta la sindrome della reclusione, che è emersa in Italia e ho notato che gli slanci creativi iniziali del motto italiano “Ce la faremo”, giravano nei media tedeschi con molta simpatia e solidarietà. Sul comportamento degli abitanti di Berlino, credo abbia inciso molto la composizione antropologica ed etnica. Per quanto riguarda la ristorazione, per la forte presenza delle diverse etnie nei settori commerciali e ristorativi, le restrizioni sono state recepite secondo predisposizione dei singoli soggetti, ma anche etniche e culturali: la distanza dei tavoli nei ristoranti, molto più attuata nel centro città, lascia a desiderare nelle periferie, che vedono una forte presenza di gestori di aree mediterranee e di altre provenienze.

Come si sono contenuti i contagi da Covid-19?

Chiuse alcune attività commerciali e di ristorazione (bar, pub e dancing, ma i ristoranti potevano vendere per asporto) le scuole, le università e altre istituzioni. L’attività produttiva non ha subito interruzioni. Con i dati giornalieri della diffusione della pandemia sempre sotto controllo e un sistema sanitario che dava ampie garanzie rispetto al procedere del contagio (la sanità, a differenza dell’Italia, è molto onerosa ed è a carico di ogni singolo cittadino), non si sono mai generati allarmismi incontrollabili. Anche qui però, si diceva di tutto e il giorno dopo ci si smentiva, ma, a differenza dell’Italia, non si è assistito a politici che cavalcavano la situazione a fini speculativi. Le posizioni sovraniste dell’estrema destra, restano marginali al dibattito politico. Qui c’è più patriottismo, un sentimento che determina la compattezza nazionale in situazioni di emergenza. In Italia, per quello che mi è sembrato di capire, la divisione ha dominato sia nelle forze di governo, che nell’opposizione. Anche qui si sono avute rimostranze (i commercianti e i gruppi complottisti), ma non si è giunti a fare le manifestazioni che l’opposizione ha indetto in Italia, contravvenendo le regole del distanziamento sociale. Infine, e non è da poco, i media sono molto meno pieni di esperti e contro-esperti che assillano la quotidianità. Mi pare che nella famiglia tedesca, tranne alcuni casi patologici, come il nostro vicino pensionato, barricatosi in casa con la moglie, la paura non è entrata nell’inconscio collettivo. I problemi nel periodo più tragico della prima fase, sono stati generati dalle convivenze forzate a cui non si era abituati, con forme di violenze e di maltrattamenti in famiglia, soprattutto tra coloro che vivono nei quartieri densamente popolati e più impossibilitati ad uscire. Insomma, qui non avevamo le immagini dei camion militari che a Bergamo trasportavano i morti. La morte non la si vedeva.

Le misure adottate per le difficoltà causate dal lockdown, all’attività di ristorazione?

Gli interventi economici sono stati rapidi ed efficaci, a tamponare un periodo che copriva tre mesi (aprile, maggio e giugno): 5.000 euro a ogni partita IVA + 9.000 al massimo, in relazione ai costi di gestione dell’attività, erogati nell’arco di tre giorni dalla richiesta. Pare siano state fatte molte richieste non in regola, ma qui controllano e, chi ha dichiarato il falso, pagherà. In questa fase restano chiusi i teatri, i cinema, club, centri per incontri sociali. Riprende il campionato di calcio, ma senza spettatori, e i ristoranti non avranno più le limitazioni orarie, ma devono far rispettare le distanze dei tavoli, di almeno un metro e mezzo tra commensali. I tavoli vanno disinfettati al cambio clienti e sono vietate tovaglie e oggetti decorativi. Il personale deve indossare le mascherine e i menu vanno scritti alla lavagna o distribuiti in forma elettronica. L’ufficio del Comune ha inviato i suoi vigili per favorire l’occupazione di ulteriore suolo pubblico antistante i ristoranti, al fine di predisporre tavoli aggiuntivi. Dal primo luglio, entrerà in vigore per un anno la riduzione dell’IVA per le bevande dal 19 al 16% e dal 7 al 5% per il cibo: quest’ultimo vale anche per i ristoratori, che sulle vendite applicavano l’IVA al 19%.

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Il Colonnello Angelo Zito nuovo Comandante Provinciale dei Carabinieri

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Il Colonnello Angelo Zito ha assunto l’incarico di Comandante Provinciale dei Carabinieri di Avellino, subentrando al Colonnello Domenico Albanese, destinato a Roma quale Capo Ufficio presso lo Stato Maggiore del Comando Generale dell’Arma.

46enne, originario di San Marzano di San Giuseppe (TA), il Colonnello Zito ha intrapreso la carriera militare nel 1998, frequentando i corsi regolari dell’Accademia Militare di Modena e della Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma, conseguendo la laurea in Giurisprudenza. È sposato e padre di due figlie.

Nel biennio 2003-2005 ha prestato servizio presso il Battaglione Carabinieri Allievi Marescialli e Brigadieri con sede a Velletri, ricoprendo i ruoli di Comandante di Plotone e di Compagnia. Successivamente ha assunto incarichi di crescente responsabilità in reparti territoriali ad alta complessità operativa: prima come Comandante del Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Palermo-San Lorenzo, impegnato in delicate attività di contrasto alla criminalità organizzata e al traffico di stupefacenti; poi, dal 2008, come Comandante della Compagnia Carabinieri di Patti (ME), in un territorio caratterizzato da fenomeni criminali di particolare rilevanza.

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Curarsi nel Mezzogiorno costa caro

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La salute costa cara in Italia, si resta impigliati nella rete del basso reddito che, nel Meridione è quasi la metà rispetto a quello del Nord, e delle lunghe liste di attesa, fattori che, limitano o impediscono laprevenzione e la cura delle patologie anche legateall’età. Pur essendo cresciuto, negli ultimi anni, il PIL del Sud (1,5%) rispetto a quello del Nord (0,4%), le differenze restano evidenti, il PIL medio per abitante è così ripartito: Nord Est 44.900 euro; Meridione 23.900 euro; media fissata a 36.100 euro.Non può essere negato il legame tra il reddito alto e le buone condizioni di salute. L’indagine condotta dal giornale l’Avvenire conferma l’ipotesi, tant’è che i possessori di un reddito tra i 50 ed i 70 mila eurospendono 300 euro al mese per le assicurazioni sanitarie e visite specialistiche private ottenendoadeguate risposte ai bisogni personali, mentre nel Meridione tale somma è destinata alle necessitàquotidiane e non per curare le patologie. Il SSN pur essendo universale, relega una fetta sempre maggiore della popolazione nella zona grigia della mancata assistenza sanitaria. La conseguenza è l’aggravarsi delle condizioni di salute che si riflettono sul SSR costretto ad erogare prestazioni ad elevata intensità collegate alla probabile emissione della pensione di invalidità a carico dell’INPS. L’Italia è sempre più divisa, le aspettative di vita sono collegate al luogo di residenza, nel meridionesi muore tre o quattro anni prima rispetto al Nord in conseguenza dei servizi sanitari insufficienti e delle lunghe liste di attesa. Il welfare è ridotto al minimo,con la spesa pro-capite che, secondo l’Istat, è così ripartita: Mezzogiorno 78 euro, Centro 165 euro,Nord-Ovest 162 euro, Nord- Est di 207 euro.Nemmeno i bambini del Sud si salvano, i posti negli asili nido ogni 100 bambini sono 17 mentre nel Centro-Nord, in media, sono circa 37. Non cambia la musica con i servizi delle RSA offerti agli anziani:su 10 mila abitanti nel Sud i posti letto sono 37, la media nazionale è di 69, mentre in Campania è di 20posti letto.

Il piatto è servito, da 164 il Paese è diviso e sperequato, né si intravede la volontà politica di ridurre i divari territoriali.

da: Qf QuiFinanza

Al Sud si vive 3 anni in meno che al Nord, Italia sempre più divisa

Dall’aspettativa di vita al Pil, passando per reddito e servizi: il nuovo rapporto Istat evidenzia le profonde disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud Italia

Giorgio Pirani

GIORNALISTA ECONOMICO-CULTURALE

Pubblicato: 28 Maggio 2025 12:33

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ANSANord più ricco e con più servizi, il Sud no: tutte le differenze

L’Istat traccia una mappa dell’Italia che è frammentata, con forti differenze tra Nord e Sud. Un esempio, sulla speranza di vita, che a Trento è pari a 84,7 anni mentre in Campania è di 81,7, esattamente di tre anni. Questo e altri dati sono stati presentati dall’Istituto all’evento sullo stato di attuazione e sulle prospettive del federalismo fiscale.

Secondo i dati illustrati dall’Istituto, tra il 2004 e il 2024 l’aspettativa di vita alla nascita è passata da 80,7 a 83,4 anni, con un aumento più marcato per gli uomini (da 77,9 a 81,4 anni) rispetto alle donne (da 83,6 a 85,5 anni).

Come cambiano le aspettative di vita

Le province autonome di Trento e Bolzano si confermano le aree con la maggiore longevità, con una speranza di vita rispettivamente di 84,7 e 84,6 anni. All’estremo opposto, Campania e Sicilia restano in coda con valori di 81,7 e 82,1 anni. Un’intera vita condotta a Trento e a Napoli, dunque, ha statisticamente un impatto ben differente su una persona.

Il quadro degli ultimi vent’anni evidenzia un netto svantaggio per il Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, con una tendenza all’ampliamento dei divari.

Particolarmente significativi alcuni casi:

• la Calabria nel 2004 era in linea con la media nazionale, ma nel 2024 registra uno svantaggio di 1,1 anni;

• in Sicilia invece il divario è passato da -0,6 anni nel 2004 a -1,3 anni nel 2024 rispetto alla media nazionale.

Differenze anche per il welfare

Infine, l’Istat segnala che anche la spesa per il welfare territoriale riflette queste disparità. La spesa pro-capite nelle diverse aree del Paese è così distribuita:

• Mezzogiorno: 78 euro

• Isole: 144 euro

• Centro: 165 euro

• Nord-Ovest: 162 euro

• Nord-Est: 207 euro

Pil in crescita, ma il divario Nord-Sud resta marcato

Non solo l’età, a marcare un solco tra Nord e Sud è soprattutto la crescita delle due macro aree. Nel 2023 il Pil nazionale in volume è cresciuto dello 0,7% rispetto all’anno precedente, un dato in linea con la media italiana nel Nord-ovest, dove l’aumento è stato appunto dello 0,7%. La crescita è risultata più sostenuta nel Mezzogiorno (+1,5%), mentre è stata più contenuta al Centro (+0,3%) e nel Nord-est (+0,4%).

Il Pil medio per abitante nel Nord-ovest è pari a 44.700 euro, quasi il doppio rispetto al Mezzogiorno (23.900 euro) e ben 8.600 euro in più della media nazionale, fissata a 36.100 euro.

Nel resto del Paese:

• nel Nord-est il dato si attesta a 42.500 euro;

• nel Centro è pari a 38.600 euro;

• a livello regionale, il valore più alto si registra nella provincia autonoma di Bolzano con 59.800 euro;

• il minimo è in Calabria, ferma a 21.000 euro.

Disparità nel reddito famigliare

Anche il reddito disponibile delle famiglie mostra forti disomogeneità. Nel 2023, la media nazionale è stata di 22.400 euro per abitante. A livello territoriale nel Nord-ovest si è raggiunta quota 26.300 euro, mentre nel Mezzogiorno ci si è fermati ad una soglia ben più bassa, pari a 17.100 euro.

L’intervento redistributivo dello Stato ha determinato un incremento del reddito disponibile medio nazionale pari al 7,8% nel 2023, corrispondente a +1.734 euro per abitante. Tuttavia, l’effetto redistributivo varia sensibilmente tra le aree:

• nel Mezzogiorno l’incremento incide per il 17,5% sul totale del reddito disponibile;

• nel Nord-ovest è del 2,3%;

• più alto nel Nord-est, pari a 4,7%;

• infine il Centro con 7,1%

Male anche nei servizi per bambini e anziani

Il divario tra territori si riflette anche nell’accesso ai servizi. Per quanto riguarda i posti disponibili negli asili nido ogni 100 bambini:

• nel Sud Italia sono poco più di 17;

• al Centro 38,8;

• nel Nord-est 37,5;

• il Nord-ovest 35.

Nei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, i posti letto ogni 10mila abitanti sono 37 nel Mezzogiorno, contro una media nazionale di 69,1. Il livello più basso si registra in Campania con 20,2, mentre quello più alo è della Provincia autonoma di Trento con 151,1.

Istat

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Occhi di aquila, mani di vento: le donne di miniera in Sardegna

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Roberto Carta, regista sardo, ha raccolto le testimonianze delle coraggiose donne che hanno lavorato in miniera: storie di progresso e di conquiste. Il documentario, nella rosa finalista dell’AIFF

“Nel 1938 lo sviluppo intensivo delle miniere carbonifere darà al fascismo il combustile per la guerra. Carbonia, capitale dell’oro nero nazionale, comincerà ad attrarre i disoccupati delle campagne”. Esordisce così il lungometraggio di Roberto Carta, dedicato al lavoro delle donne sarde nelle miniere, nella rosa dei finalisti alla tredicesima edizione dell’Ariano International Film Festival. Molte le crude testimonianze di donne che hanno lavorato in miniera o che raccontano indirettamente la vita delle loro madri o parenti strette. Anna Simbula, riferisce della madre, Delfina Dessì, nata a Santadi nel 1921 e morta appena prima di compiere cento anni. Delfina aveva lavorato nella miniera carbonifera di Carbonia, facendo la cernita senza mai fermarsi: non poteva, poiché con le altre formava una catena di montaggio. Viaggiava di notte sia all’andata che al ritorno, insieme ad altre cernitrici: tutte avevano paura, poiché c’erano i cacciatori e persino un bandito, del cui fucile vedevano il luccichio, nel tratto di strada che percorrevano. Così lo attraversavano di corsa, nel timore che potesse sparare anche a loro. Delfina, dormiva, come le sue colleghe, soltanto un paio d’ore, ma era una donna forte, che “non si piegava”. Una donna instancabile che, ricorda con orgoglio la figlia, dopo aver lavorato in miniera, continuava a farlo anche a casa. Era entrata a lavorare giovanissima, nel 1937 e ci era rimasta fino al 1951. È stata tra coloro che oltre al nome, hanno lasciato sui muri delle cave, anche l’impronta delle mani.                                                                                                                                                                      

Alla fine degli anni Trenta, nelle miniere del Sulcis erano occupate 254 donne, impiegate nei lavori di cernita o nelle laverie di Serbariu e Bacu Abis, altre lavoravano nei servizi, negli alberghi operai e nelle lavanderie. Doloretta Ledda racconta di aver lavorato prima in laveria, poi alla “noia”, un nastro adibito a trasportare i vagoni al piano superiore. Lavorava l’intera settimana in turni quotidiani dalle 8 alle 17, con un‘ora di stacco per il pranzo: aveva scelto di lavorare anche di domenica, dalle 7 alle 14. Genoveffa Valdarchi, aveva 28 anni e nonostante fosse madre di tre bambini, uno dei quali da allattare, copriva ben tre turni, come tutti gli altri operai. Il primo turno iniziava alle 7 di mattina con uscita alle 15; il secondo turno partiva alle 15 da Sirai, un quartiere di Carbonia un po’ distante, che raggiungeva a piedi, e terminava alle 22. L’ultimo turno era dalle 22 alle 7, ma per consentirle l’allattamento, le concedevano di uscire 2 ore prima. Ricorda delle sue paure di notte, quando da sola doveva percorrere le strade e si avvicinava a dei minatori, anche se sconosciuti, per superare lo sconforto. Faustina Piras racconta della possibilità di scegliere di rimanere più tempo in miniera poiché c’era molto lavoro. Lei in un mese, avendo lavorato “36 giornate”, aveva percepito 180 lire di stipendio, non certo una grande cifra, ma quanto le aveva consentito di iniziare ad acquistare il corredo che le serviva per sposarsi. Lavorare le piaceva, anche se non era un gioco: bisognava evitare di distrarsi a parlare ed escludere rapidamente le pietre dai nastri, altrimenti le avrebbero dovute togliere le ultime lavoranti, perché non scendessero con la parte buona del carbone. Iride Peis, insegnante elementare di Guspini (Sulcis-Iglesiente), si è appassionata alla storia mineraria del territorio fin da bambina, quando il nonno, fonditore, le parlava del suo lavoro nelle miniere di Montevecchio. Avendo sposato il medico della miniera, è stata ulteriormente facilitata nella conoscenza della materia, che a sua volta trasmette agli alunni. Nel 1855, l’ingegner Nicolay, direttore della miniera di Monteponi, racconta Iride, aveva visto le donne lavorare nei cortili delle case pulendo grano, fave e ceci e così, gli era venuta l’idea di portarle a lavorare in miniera a separare il minerale utile da quello sterile: “saranno più brave perché sono più attente e più svelte. Queste donne hanno occhi di aquila e mani di vento. Inoltre costeranno la metà degli uomini”. I cernitori (uomini) c’erano già, ma erano “il pidocchio in mezzo alla farina”, non sapevano muoversi bene, rispetto alle donne, – precisa Iride. “Sul salario, continua Iride, – si evidenzia la prima discriminazione, finché nel 1940 le cernitrici saranno sostituite dalle macchine. Le donne però cominceranno a farsi valere formando gruppi e associazioni, appoggiando proteste e scioperi dei loro familiari, anche per lunghi periodi, partecipando esse stesse in prima persona, resistendo alle pressioni”. Nadia Gallico Spano (ndr, tra le 21 donne elette nella Costituente, poi deputata del PCI) ricorda le lotte delle donne, operaie e contadine uccise nel rivendicare i propri diritti o per difendere quelli dei propri uomini. “Le donne sfidavano le violenze poliziesche, venivano persino arrestate e accettavano coraggiosamente anche lunghi periodi di sciopero, come quello di 72 giorni, in cui non ricevettero nessun salario e una popolazione di circa 52 mila persone, fu ridotta allo stremo”. Al convegno nazionale dell’UDI di Firenze del novembre 1948 la Spano comunicò della dura lotta in difesa delle miniere e della drammatica condizione delle famiglie di Carbonia prive di mezzi, ponendo l’accento sulla condizione femminile, che commosse le donne italiane. Grande combattente, Nadia Gallico Spano era amata e apprezzata nell’ambiente e a Carbonia in particolare, perché voleva donne indipendenti, coscienti della propria condizione e capaci di autogestirsi.                                                                                                                                                                   

 Roberto Carta, autore del documentario, che attualmente vive a Bologna, ma è affezionato alla sua terra, dove torna ogni volta che può, ci ha rivelato che l’idea di raccogliere le testimonianze femminili, gli è maturata a seguito dei racconti ascoltati da piccolo: i suoi nonni avevano lavorato in miniera e una sua zia, Albina, era morta a seguito di un incidente in miniera. Diversi erano stati gli uomini che avevano subito incidenti gravi in cui avevano perso gli arti o erano morti, ma lei è stata l’unica donna a perdere la vita: il suo vestito era rimasto impigliato in un rullo che l’aveva risucchiata. Non è stato facile realizzare il progetto, – ci ha raccontato – soprattutto per carenze di budget: da quando lo ha ideato a quando lo ha concluso, ambientandolo nei luoghi e nelle miniere in cui hanno lavorato le donne, sono passati due anni. Per la sua rilevanza sociale, ha ottenuto il contributo della Regione Sardegna.                                                                                                                                                                                      

Ancora il regista: “Come testimoniano nel documentario, le donne rimpiangono ancora il lavoro in miniera: erano contente di farlo, socializzavano, cantavano, e soprattutto, erano autonome, non erano costrette a stare a casa, come invece accadeva una volta sposate. Con il lavoro in miniera, avevano raggiunto la loro indipendenza, smarcandosi dal predominio maschile. Non lavoravano in condizioni facili, venivano pagate pochissimo, ma il loro sacrificio è servito ad aprire la strada alle altre donne”. Un documentario da vedere e diffondere: tra il pubblico, i giovani, nelle scuole, per comprendere quali sacrifici siano state capaci di fare le donne coraggiose che ci hanno preceduto per consentirci quelle conquiste che oggi troppo spesso si danno per scontate e di cui nella maggior parte dei casi non si conoscono le origini. Un percorso di emancipazione pagato a caro prezzo, per consentirci la libertà di scegliere.

Breve biografia di Roberto Carta                                                                                                                                                                                   

Roberto Carta, nato nel 1976 a Carbonia (SU), si è laureato al Dams di Bologna, indirizzo cinema. Dal 2004 al 2008 è stato aiuto regista nei lungometraggi, “Il vento fa il suo giro” e “L’uomo che verrà”, entrambi diretti da Giorgio Diritti (ndr, regista di: Volevo nascondermi, sulla vita di Ligabue, magistralmente interpretato da Elio Germano). È stato redattore per la trasmissione televisiva di Carlo Lucarelli (10 puntate) “Milonga Station”, in onda su Rai Tre.                                                                                              

Nel 2014 ha sceneggiato e diretto “Sinuaria”, cortometraggio ambientato nell’isola dell’Asinara, selezionato in numerosi festival cinematografici, e vincitore di 18 premi, tra cui la nomination ai David di Donatello 2015. Nel 2017 il regista ha diretto e montato: il corto – documentario, “Custodi del proprio territorio”, prodotto dall’ISMEA e il videoclip “Michimaus”, della cantante e attrice Angela Baraldi. Nel 2020 ha realizzato il cortometraggio “Lasciami andare” (ndr, sul banditismo sardo), ambientato nella Sardegna barbaricina, prodotto col sostegno della Regione Sardegna.                                                                                                                                                  

 “Donne di miniera” (2023), è il suo primo documentario: prodotto da Mario Pezzi, ha una durata di 55 minuti. Le musiche sono di Stefano Tore su tema di Maria Teresa Cau, montaggio di Erika Manoni.

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